venerdì

Fotografia — Portfolio del mese

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Canção do Mar



Fui bailar no meu batel
Além do mar cruel
E o mar bramindo
Diz que eu fui roubar
A luz sem par
Do teu olhar tão lindo

Vem saber se o mar terá razão
Vem cá ver bailar meu coração

Se eu bailar no meu batel
Não vou ao mar cruel
E nem lhe digo aonde eu fui cantar
Sorrir, bailar, viver, sonhar contigo

Vem saber se o mar terá razão
Vem cá ver bailar meu coração

Se eu bailar no meu batel
Não vou ao mar cruel
E nem lhe digo aonde eu fui cantar
Sorrir, bailar, viver, sonhar contigo


Dulce Pontes, Canção do mar, 1993

giovedì

Gli incidenti di Sofia

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Quale che fosse stata la sua precedente occupazione, l’aveva abbandonata, aveva cambiato professione per dedicarsi all’insegnamento nelle scuole elementari: ecco tutto ciò che sapevamo di lui.
Il maestro era grasso, grande e silenzioso, aveva spalle rattrappite. Al posto del pomo di Adamo aveva spalle rattrappite. Portava una giacca troppo corta, occhiali senza montatura, appena un filo dorato a sovrastare un naso grosso e romano. Ne ero attratta. Non amore, ma attratta dal suo silenzio e dalla controllata impazienza che aveva nell’insegnare e che io, offesa, avevo indovinata. Presi a comportarmi male in classe. Parlavo ad alta voce, stuzzicavo i compagni, interrompevo la lezione con spiritosaggini, finché lui diceva, rosso in viso:
Signorina, stia zitta, se no la mando fuori.
Ferita, trionfante, rispondevo in tono di sfida: mi ci mandi pure! Lui non lo faceva, altrimenti sarebbe stato come se mi avesse obbedito. Ma lo esasperavo a tal punto che mi era diventato doloroso essere l’oggetto dell’odio di quell’uomo che in un certo modo amavo. Non lo amavo come la donna che un giorno sarei stata, lo amavo come una bambina che maldestramente tenta di proteggere un adulto, con la collera di chi ancora non è stato vile e vede un uomo forte curvare le spalle così. Mi irritava. La sera, prima di addormentarmi, mi irritava. Avevo nove anni e qualcosa, età dura come il gambo non spezzato di una begonia. Lo torturavo, e quando riuscivo a esacerbarlo sentivo in bocca, in gaudio di martirio, l’insopportabile agrezza della begonia quando la si schiaccia tra i denti; e mi rosicchiavo le unghie, esultante. Al mattino, nel varcare il cancello della scuola, pura com’ero con il mio caffellatte e la mia faccia al sapone, era un colpo trovarmi di fronte in carne e ossa l’uomo che mi aveva fatto fantasticare per un abissale minuto prima di addormentarmi. In superficie di tempo era stato un momento soltanto, ma in profondità erano secoli di oscurissima dolcezza. Al mattino — come se io non avessi fatto conto della reale esistenza di colui che aveva scatenato i miei tenebrosi sogni d’amore — al mattino, davanti a quell’uomo grande con la sua giacca corta, di colpo cadevo nella vergogna, nella perplessità e nella paurosa speranza. La speranza era il mio peccato più grande.
Ogni giorno si rinnovava la lotta meschina che avevo intrapresa per la salvezza di quell’uomo. Io volevo il suo bene, e in cambio lui mi odiava. Amareggiata, ero diventata il suo demonio e il suo tormento, simbolo dell’inferno che doveva essere per lui istruire quel branco scanzonato di menefreghisti. Ed ormai era diventato un piacere terribile il non lasciarlo in pace. Il gioco, come sempre, mi affascinava. Senza sapere che obbedivo ad antiche tradizioni, ma con una scienza che i malvagi hanno in sé dalla nascita — quei malvagi che si rosicchiano le unghie da far paura —, senza sapere che obbedivo a una delle cose che succedono più spesso nel mondo, io ero la prostituta e lui il santo. No, forse non è questo. Le parole mi precedono e mi oltrepassano, mi tentano e mi modificano, e se non sto attenta sarà troppo tardi: le cose saranno dette senza che io le abbia dette. O, per lo meno, non era soltanto questo. La mia confusione è questa, che un tappeto è composto di tanti fili che non so rassegnarmi a seguire un filo solo; e il mio imbarazzo viene dal fatto che una storia è composta di molte storie. E non tutte le posso raccontare — una parola troppo vera potrebbe, di eco in eco, far precipitare giù per la china le mie alte valanghe. Quindi non parlerò più del vortice che si formava dentro di me mentre fantasticavo prima di addormentarmi. Altrimenti io stessa finirei per credere che fosse soltanto quella soave voragine a spingermi verso di lui, dimenticando la mia disperata abnegazione. Ero diventata la sua seduttrice, dovere che nessuno mi aveva imposto. Era un peccato che fosse caduto nelle mie mani sbagliate il compito di salvarlo per mezzo della tentazione, perché tra tutti gli adulti e i bambini di quell’epoca ero probabilmente la meno indicata. «Questo non è fiore da odorare», come diceva la nostra domestica. Ma era come se, sola con un alpinista paralizzato dal terrore del precipizio, io, per inesperta che fossi, non potessi esimermi dal tentativo di aiutarlo a scendere. Il maestro aveva avuto la sfortuna che fosse proprio la più imprudente a restare sola con lui sui suoi dirupi. Per rischiosa che fosse la parte mia, dalla mia parte ero obbligata a trascinarlo, perché la sua era mortale. Ed era quello che facevo, come un bambino molesto tira un grande per un lembo della giacca. Lui non guardava indietro, non domandava che cosa volevo, e si liberava di me con uno strattone. Io continuavo a tirarlo per la giacca, il mio unico strumento era l’insistenza. E di tutto questo lui si accorgeva solo che io gli strappavo le tasche. Vero è che neppure io stessa sapevo con esattezza quello che stavo facendo, la mia vita col maestro era invisibile. Ma sentivo che il mio ruolo era malvagio e pericoloso: mi spronava l’ingordigia di una vita reale che tardava a venire, e peggio che maldestra, provavo anche gusto a strappargli le tasche. Solo Dio avrebbe perdonato ciò che ero, perché Lui soltanto sapeva di che cosa mi aveva fatta e per che cosa. Io, perciò, mi lasciavo essere materia di Lui. Essere materia di Dio era la mia unica bontà. E la fonte di un nascente misticismo. Non misticismo per Lui, ma per la materia di Lui, ma vita dura e piena di piaceri: ero un’adoratrice. Accettavo la vastità di ciò che non conoscevo, e ad essa mi affidavo tutta, con segreti da confessionale. Era verso le tenebre dell’ignoranza che inducevo il maestro? e con l’ardore di una monaca nella sua cella. Monaca giuliva e mostruosa, ahimè. E neppure me ne sarei potuta vantare: in classe eravamo tutti parimenti mostruosi e soavi, avida materia di Dio.
Ma se mi facevano tenerezza le sue grandi spalle rattrappite e la sua giacchetta striminzita, le mie risate ottenevano soltanto che lui, fingendo, e con che fatica, di dimenticarmi, a forza di autocontrollo si contraesse ancora di più. L’antipatia che quell’uomo provava per me era così forte che io mi detestavo. Finché le mie risa andarono sostituendo definitivamente la mia gentilezza impossibile.
Imparare, a quelle lezioni, non imparavo. Il gioco di renderlo infelice si era impadronito troppo di me. Sopportando con disinvolta amarezza le mie lunghe gambe e le scarpe sempre scalcagnate, umiliata perché non ero un fiore, e soprattutto torturata da un’infanzia enorme, che temevo non dovesse terminare mai più — lo rendevo più infelice e scuotevo alteramente la mia unica ricchezza: i capelli sciolti che mi ripromettevo di abbellire un giorno con la permanente e che nell’attesa mi esercitavo ad agitare. Studiare non studiavo, fiduciosa nella mia fannullaggine a successo garantito, che il maestro scambiava, essa pure, come un’ulteriore provocazione da parte di quell’odiosa ragazzina. In questo però non aveva ragione. La verità è che per studiare di tempo non me ne avanzava. I divertimenti mi assorbivano, lo stare attenta mi prendeva giorni e giorni; c’erano i libri di favole, che leggevo rosicchiandomi per la passione le unghie fino all’osso nelle mie prime estasi di malinconia, una raffinatezza che avevo già scoperta; c’erano dei ragazzini che io avevo scelti e che non mi avevano scelta, e io perdevo ore a soffrire perché essi erano inattingibili, e poi altre ore ancora di sofferenza per accettarli con tenerezza, perché l’uomo era per me il re del Creato; c’era la speranzosa minaccia del peccato, che con timore mi dedicavo ad aspettare; senza dire che ero permanentemente occupata a volere e non volere essere ciò che ero, non sapevo decidermi per quale di me, ma tutta me non potevo proprio; l’esser nata era pieno di errori da correggere. No, non era per irritare il maestro che non studiavo; avevo tempo soltanto per crescere. E lo facevo in tutte le direzioni, con una goffaggine che sembrava piuttosto un errore di calcolo: le gambe non combinavano con gli occhi, e la bocca era emozionata mentre le mani si ramificavano, sporche come erano nella gran fretta crescevo senza sapere da che parte. Il fatto che un ritratto di quell’epoca mi riveli, viceversa, come una bambina ben piantata, selvaggia e soave, occhi pensosi sotto la pesante frangetta, tale ritratto reale non mi smentisce, non fa altro che rivelare una fantasmagorica estranea, che io, se fossi sua madre, non comprenderei. Solo molto più tardi, dopo che mi fui finalmente organizzata in un corpo e mi sentii fondamentalmente più sicura, potei avventurarmi a studiare un poco; prima, però, non potevo arrischiarmi a imparare, non volevo frastornarmi — intuitivamente avevo cura di ciò che ero, giacché non sapevo che cos’ero, e con vanità coltivavo l’integrità della mia ignoranza. È un peccato che il maestro non sia arrivato a vedere ciò che inaspettatamente sarei diventata quattro anni dopo: a tredici anni, le mani pulite, fresca di bagno, tutta composta e carina, mi avrebbe vista come una cartolina di Natale, affacciato al balcone di una villetta. Ma al suo posto era passato di là sotto un mio ex-compagnetto, mi aveva chiamata ad alta voce, senza accorgersi che ormai non ero più un monello, ma una ragazza perbene che non si può più gridare il suo nome per le strade di una città. «Che c’è?» chiesi all’intruso, gelida. Allora mi gridò per risposta la notizia che il maestro era morto all’alba di quel giorno. E bianca, con gli occhi molto aperti, avevo guardato la strada vertiginosa ai miei piedi. La mia compostezza infranta come quella di una bambola rotta.
Tornando a quattro anni prima. Fu forse per tutto ciò che ho raccontato, mescolato e nel suo insieme, che scrissi quel componimento assegnato dal maestro, scioglimento di questa storia e inizio di altre. Oppure fu soltanto per la fretta di terminare il compito in qualsiasi modo per correre a giocare in giardino.



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— Vi racconterò una storia — egli disse — e voi farete un componimento. Ma con parole vostre. Chi prima finisce non c’è bisogno che aspetti la campanella, può andare subito alla ricreazione.
Ed ecco che cosa raccontò: un uomo poverissimo aveva sognato di aver scoperto un tesoro e di essere diventato ricchissimo; al risveglio aveva preso su ed era partito alla ricerca del tesoro; aveva corso il mondo intero, ma il tesoro non l’aveva trovato; stanco, era tornato alla sua povera, povera casetta; non aveva da mangiare e allora aveva incominciato a coltivare il suo povero orticello; e tanto aveva piantato, tanto aveva raccolto, tanto aveva venduto, che alla fine era diventato ricchissimo.
Lo ascoltai con aria sprezzante, giocando ostentatamente con la matita, come per fargli capire che le sue storie non mi infinocchiavano e che io sapevo bene chi era lui. L’aveva raccontata senza guardarmi neanche una volta. Il fatto è che, non avendo modo per amarlo e per il gusto di infastidirlo, lo perseguitavo anche con lo sguardo: a tutto ciò che diceva, rispondevo con uno sguardo semplice e diretto, del quale nessuno in coscienza mi avrebbe potuto far colpa. Era uno sguardo che rendevo proprio limpido e angelico, molto aperto, come quello del candore che guarda il delitto. E ottenevo sempre lo stesso risultato: lui si turbava, evitava i miei occhi, cominciava a balbettare. Questo mi riempiva di un potere che mi rendeva maledetta. E di pietà. E questo, a sua volta, mi irritava. Mi irritava che egli obbligasse una scemetta qualunque a comprendere un uomo.
Erano quasi le dieci, tra poco avrebbe suonato la campanella della ricreazione. Quella mia scuola, in mezzo a uno dei parchi della città, aveva il più grande campo di giochi mai visto. Era bello per me quanto lo sarebbe stato per uno scoiattolo o per un cavallo. C’erano alberi dappertutto, lunghe salite e discese e distese di prati. Non finiva più. Tutto lì era lontano e grande, fatto per lunghe gambe infantili, e c’era posto per mucchi di mattoni e legname di ignota origine, per viluppi di agre begonie che noi mangiavamo, per sole e ombra dove le api facevano il miele. Là c’era posto per infinita aria libera. E tutto era stato vissuto da noi: ci eravamo già rotolati giù per ogni pendio, avevamo confabulato fitto fitto dietro ogni mucchio di mattoni, e assaggiato svariati fiori e in tutti i tronchi avevano inciso col temperino date, dolci parolacce e cuori trafitti da frecce; bambini e bambine vi facevano il loro miele.
Stavo finendo il mio componimento e l’odore di quelle ombre segrete già mi chiamava. Mi affrettai. Io sapevo solamente «usare parole mie», quindi scrivere era semplicissimo. Mi spingeva poi la voglia di essere la prima ad attraversare la classe — il maestro aveva finito per isolarmi in quarantena nell’ultimo banco — e a consegnargli insolentemente il componimento, per dimostrargli così la mia sveltezza, qualità che mi appariva essenziale per vivere e che, ne ero certa, il maestro doveva per forza ammirare.
Gli consegnai il quaderno e lui lo prese senza neanche guardarmi.
Mortificata, senza un elogio per la mia velocità, in due salti uscii nel gran parco.
La favola che avevo trascritto con parole mie era uguale a quella raccontata da lui. Solo che in quel periodo io stavo incominciando a «trarre la morale dalle favole», il che, se mi santificava, più tardi avrebbe rischiato di soffocarmi con il suo rigore. Con un pizzico di saccenteria avevo quindi aggiunto un finale. Con alcune frasi che qualche ora dopo avrei letto e riletto per capire che cosa poteva esservi in esse di tanto possente da aver finalmente provocato quell’uomo come io fino ad allora non ero riuscita a fare neppure di persona. Probabilmente quello che il maestro aveva voluto sottintendere nella sua triste favola è che il duro lavoro è l’unico modo per riuscire a far fortuna. Ma io, imprudentemente, avevo concluso con la morale opposta: qualcosa sul tesoro nascosto, che sta dove meno si aspetta, che è solo questione di scoprirlo, credo di aver parlato di poveri orti dove erano tesori. Non ricordo più, non so se era precisamente questo. Non riesco a immaginare con quali parole di bambina posso aver esposto un sentimento semplice, che diventa però un pensiero complicato. Suppongo che, distorcendo arbitrariamente il vero significato della favola, in qualche modo io già mi promettevo per iscritto che l’ozio, più che il lavoro, mi avrebbe dato le grandi ricompense gratuite, le uniche a cui aspiravo. È possibile pure che già da allora il motivo conduttore della mia vita fosse l’irragionevole speranza, e che avessi già iniziato la mia grande ostinazione: avrei dato tutto ciò che avevo per niente, ma volevo che tutto mi fosse dato per niente. Al contrario del contadino della favola, nel componimento io mi scrollavo dalle spalle tutti i doveri e ne uscivo libera e povera, e con un tesoro in mano.
Andai alla ricreazione, dove rimasi sola, con l’inutile premio di aver finito per prima, a cincischiare con la terra aspettando impaziente gli altri bambini, che a poco a poco cominciarono a uscire di classe.
A un certo punto dei nostri giochi violenti mi venne in mente di andare a prendere non so più cosa nella cartella, per farla vedere al custode del parco, mio amico e protettore. Tutta bagnata di sudore, rossa di una felicità incontenibile che se fossi stata a casa mi avrebbe procurato qualche schiaffo — volai in classe, l’attraversai di corsa e tanto distrattamente che non vidi il maestro che stava sfogliando i quaderni ammucchiati sulla cattedra. Avevo giàin mano quel che ero andata a prendere e mi stavo rimettendo a correre per tornare indietro — solo allora il mio sguardo inciampò nel maestro.
Solo, in cattedra: mi guardava.
Era la prima volta che ci trovavamo faccia a faccia da soli. Lui mi guardava. I miei passi, già lenti, quasi si fermarono.
Per la prima volta ero sola con lui, senza l’appoggio bisbigliante della classe, senza l’ammirazione che la mia audacia provocava. Cercai di sorridere, sentendo che il sangue mi fuggiva dal viso. Una goccia di sudore mi corse per la fronte. Lui mi guardava. I1 suo sguardo era una zampa morbida e pesante su di me. La zampa era blanda, ma mi paralizzava totalmente come quella di un gatto che senza fretta tiene ferma la coda del topo. La goccia di sudore scese giù per il naso e sulla bocca, dividendo a metà il mio sorriso. Nient’altro: senza alcuna espressione nello sguardo, mi guardava. Incominciai a rasentare la parete a occhi bassi, afferrandomi tutta al mio sorriso, unico tratto di un volto che aveva già perso i suoi contorni. Non mi ero mai accorta quanto fosse lunga la classe; solo adesso, nel lento passo della paura, vedevo le sue vere dimensioni. Né la mia mancanza di tempo mi aveva permesso di accorgermi sino a quel momento di come erano austere e alte le pareti; e dure, sentivo la parete dura contro il palmo della mano. Come in un incubo, del quale il sorridere faceva parte, non riuscivo a credere di poter raggiungere il vano della porta — da dove sarei corsa via, ah, come sarei corsa via! a rifugiarmi in mezzo ai miei pari, ai bambini. Oltre a concentrarmi nel sorriso, la mia zelante cura era di non far rumore coi piedi, e così aderivo all’intima natura di un pericolo di cui ignoravo tutto il resto. Fu con un brivido che a un tratto mi indovinai come in uno specchio: una cosa umida che strisciava lungo il muro, che avanzava adagio in punta di piedi, e con un sorriso sempre più intenso. Il mio sorriso aveva cristallizzato la classe in silenzio, e anche i rumori che venivano dal parco scorrevano all’esterno di quel silenzio. Giunsi finalmente alla porta, e il cuore imprudente si mise a battere troppo forte, a rischio di svegliare il gigantesco mondo che dormiva.
Fu allora che udii il mio nome.
Inchiodata a terra di botto, con la bocca arida, rimasi lì dandogli le spalle, senza il coraggio di voltarmi. La brezza che entrava dalla porta finì per asciugarmi il sudore addosso. Mi girai adagio, trattenendo dentro i pugni chiusi la voglia di scappare.
Al suono del mio nome la stanza si era disipnotizzata.
E adagio adagio vidi il maestro tutto intero. Adagio adagio vidi che il maestro era molto grande e molto brutto, e che era l’uomo della mia vita. La nuova e grande paura. Piccola, sonnambula, sola dinanzi a ciò a cui la mia fatale libertà mi aveva alfine condotta. Il mio sorriso, tutto quello che era rimasto di un volto, si era spento esso pure. Io ero due piedi irrigiditi a terra e un cuore tanto vuoto che pareva stesse morendo di sete. Rimasi lì, fuori dalla sua portata. Il mio cuore moriva di sete, sì. I1 mio cuore moriva di sete.
Calmo come prima di uccidere freddamente disse: — Vieni più vicino...
Possibile che un uomo si vendicasse?
Avrei ricevuto di ritorno in piena faccia la palla di mondo che io stessa gli avevo gettata, ma che non per questo conoscevo. Avrei ricevuto di ritorno una realtà che non sarebbe esistita se io non l’avessi temerariamente indovinata, con ciò dandole vita. Fino a che punto quell’uomo, montagna di compatta tristezza, era anche montagna di furia? Ma il mio passato era adesso troppo tardi. Un pentimento stoico mantenne eretto il mio capo. Per la prima volta l’ignoranza, che fino ad allora era stata la mia grande guida, mi abbandonava. Mio padre era al lavoro, mia madre era morta da pochi mesi. Io ero l’unico io.
Prendi il tuo quaderno... — soggiunse.
La sorpresa mi spinse a un tratto a guardarlo. Allora era soltanto questo? L’inaspettato sollievo fu un’emozione quasi più forte dello spavento di prima. Avanzai di un passo, tesi la mano balbettante.
Ma il maestro rimase immobile e non mi dette il quaderno.
Per mia subita tortura, senza staccarmi gli occhi di dosso, si tolse lentamente gli occhiali. E mi guardò con occhi nudi che avevano molte ciglia. Non avevo mai visto i suoi occhi, che con tutte quelle ciglia sembravano due patate dolci. Mi guardava. E io non seppi come esistere dinanzi a un uomo. Mi detti un contegno guardando il soffitto, il pavimento, le pareti, e continuavo a tenere la mano tesa perché non sapevo come ritirarla. Lui mi guardava paziente, curioso, e con gli occhi spettinati come se si fosse appena svegliato. Mi avrebbe battuta con mano inattesa? O costretta ad inginocchiarmi e a chiedere perdono. Il mio filo di speranza era che non sapesse che cosa gli avevo fatto, come anch’io ormai non lo sapevo più, in realtà non l’avevo mai saputo.
— Come ti è venuta in mente l’idea del tesoro che si nasconde?
— Che tesoro? — mormorai imbambolata.
Rimanemmo a fissarci in silenzio.
— Ah, il tesoro! — d’un tratto mi precipitai, anche senza capire, nell’ansia di ammettere qualsiasi fallo, implorandolo che il mio castigo consistesse solo nel soffrire per sempre per una colpa, che la tortura eterna fosse la mia punizione, ma non quella vita sconosciuta.
— Il tesoro che si cela dove meno ci si aspetta. Che basta scoprire. Chi te l’ha detto?
Questo è ammattito, pensai, che c’entra il tesoro? Attonita, senza capire, e avanzando da inaspettato a inaspettato, presentii tuttavia un terreno meno pericoloso. Nelle mie corse avevo imparato ad alzarmi dopo le cadute anche zoppicando, e mi ripresi subito: «è stato il tema sul tesoro! allora deve essere stato quello il mio sbaglio!» Debole, e pur tastando ancora con prudenza il terreno della mia nuova e sdrucciolevole sicurezza, mi ero già rialzata dalla caduta quanto bastava per riuscire a scuotere, in una specie di imitazione dell’antica arroganza, la mia futura chioma ondulata:
— Nessuno, chi me lo doveva dire... — risposi zoppicando. L’ho inventato da sola — dissi tremula, eppure ricominciando già a far faville.
Se mi sentivo sollevata perché finalmente avevo una cosa concreta tra le mani, mi stavo anche rendendo conto di un fatto assai peggiore. L’improvvisa mancanza di collera da parte sua. Lo guardai di sottecchi, imbarazzata. E via via sempre più insospettita. La sua mancanza di collera aveva incominciato a spaventarmi, aveva minacce nuove che non capivo. Quello sguardo che non mi abbandonava — e senza collera... Perplessa, e senza nulla in cambio, io stavo perdendo il mio nemico e il mio sostegno. Lo guardai sorpresa. Che cosa mai voleva da me? Mi metteva a disagio. E il suo sguardo senza collera mi infastidiva ora più della brutalità che avevo temuta. Una paura piccola, tutta fredda e sudata, si andò impossessando di me. Pian piano, perché non se ne accorgesse, arretrai con le spalle fino a trovare la parete, poi la testa arretrò sino a non poter andare oltre. E da quella parete, dove mi ero incastonata completamente, furtivamente lo guardai.
Lo stomaco mi si riempì di una liquida nausea. Non so descriverla. Io ero una ragazzina molto curiosa e, impallidendo, vidi. Agghiacciata, sul punto di vomitare, sebbene ancor oggi non sappia ciò che vidi esattamente. Ma so che vidi. Vidi così in fondo, come dentro una bocca, d’un tratto vedevo l’abisso del mondo. Quel che vedevo era anonimo come un ventre aperto per un’operazione all’intestino. Vidi una cosa che si stava formando sul suo viso — il malessere ormai pietrificato saliva faticosamente fino alla sua pelle, vidi la smorfia che lentamente esitava e rompeva una crosta — ma quella cosa che in muta catastrofe si sradicava, questa cosa rassomigliava ancora così poco a un sorriso come se un fegato o un piede tentassero di sorridere, non so. Quel che vidi, lo vidi così da vicino che non so cosa vidi. Come se il mio occhio curioso si fosse incollato al buco della serratura e trasalendo si fosse incontrato dall’altra parte con un altro occhio incollato che mi guardava. Io vidi dentro a un occhio. Un occhio aperto con la sua gelatina mobile. Con le sue lacrime organiche. Da solo l’occhio piange, da solo l’occhio ride. Finché lo sforzo del maestro si completò, tutto intento,e in vittoria infantile mostrò, perla strappata dal ventre aperto — che stava sorridendo. Io vidi un uomo con le viscere che sorridevano. Vedevo la sua estrema apprensione per non sbagliare, la sua diligenza di alunno lento, il suo impaccio come se improvvisamente fosse diventato mancino. Senza capire, sapevo che mi si chiedeva di ricevere la resa di lui e del suo ventre aperto, e che ricevessi il suo peso d’uomo. Le mie spalle forzarono disperatamente la parete, arretrai — era troppo presto perché vedessi tanto. Era troppo presto perché vedessi come nasce la vita. Il nascere della vita era talmente più cruento che morire. Morire è ininterrotto. Ma vedere la materia inerte che lentamente tenta di sollevarsi come un grande morto-vivo... Vedere la speranza mi terrorizzava, vedere la vita mi sconvolgeva lo stomaco. Stavano chiedendo troppo al mio coraggio solo perché ero coraggiosa, chiedevano la mia forza solo perché ero forte. «Ma, e io?», gridai dieci anni dopo per motivi di amore perduto, «chi verrà mai alla mia debolezza!» Lo guardavo sorpresa e per sempre non seppi che cosa vidi, quel che avevo visto avrebbe potuto accecare i curiosi.
Allora egli disse, usando per la prima volta il sorriso che aveva imparato:
— Il tuo tema sul tesoro è così bello. Il tesoro che basta scoprire. Tu... — per un momento non disse altro. Mi scrutò dolcemente indiscreto, intimo come se fosse il mio cuore. — Sei una bambina molto strana — disse alla fine.
Fu la prima vera vergogna della mia vita. Abbassai gli occhi, incapace di sostenere lo sguardo indifeso di quell’uomo che avevo ingannato.
Sì, la mia impressione era che lui, malgrado la sua collera, in qualche modo aveva avuto fiducia in me, e che allora l’avevo ingannato con quella fandonia del tesoro. A quell’epoca pensavo che tutto ciò che si inventa è bugia, e soltanto la mia coscienza tormentata dal peccato mi redimeva da quel vizio. Abbassai gli occhi per la vergogna. Preferivo la sua collera di prima, che mi aveva aiutato nella sua lotta contro me stessa, perché coronava d’insuccesso i miei sistemi e forse un giorno avrei finito col correggermi: quello che non volevo era questo ringraziamento che non soltanto era per me la peggiore delle punizioni, perché non lo meritavo, ma incoraggiava pure la mia vita sbagliata che tanto temevo, vivere sbagliato mi attraeva. Avrei voluto anche avvisarlo che non si trovano tesori per caso. Ma, guardandolo, mi mancò il coraggio: non avevo la forza di disilluderlo. Mi ero già abituata a proteggere la gioia degli altri, quella di mio padre, ad esempio, che era più imprevidente di me. Ma come mi fu difficile mandar giù questa gioia che tanto irresponsabilmente avevo causata! Sembrava un mendico che ringraziasse per il piatto di cibo senza accorgersi che gli avevano dato carne andata a male. Il sangue mi era salito al viso, così caldo, ora, che mi pareva di avere gli occhi fuori dalla testa, mentre lui, probabilmente per un altro errore, doveva pensare che ero arrossita di piacere per il suo elogio. Quella notte stessa tutta la storia si sarebbe trasformata in un’inarrestabile crisi di vomito, che avrebbe tenuto accese tutte le luci di casa mia.



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— Tu — egli ripeté allora lentamente come se a poco a poco stesse ammettendo con piacevole sorpresa quanto gli era venuto alle labbra per caso —, tu sei una bambina molto strana, sai? Sei una pazzerella... — disse, usando ancora il sorriso come un ragazzino che dorme con le scarpe nuove. Non sapeva neppure che era brutto, quando sorrideva. Fiducioso, mi lasciava vedere la sua bruttezza, che era la sua parte più innocente.
Dovetti inghiottire come potei l’offesa che mi faceva fidandosi di me, dovetti inghiottire la pietà per lui, la vergogna per me, «sciocco!» avrei voluto gridargli, «quella storia del tesoro nascosto l’ho inventata, è solo una cosa da ragazzina!» lo avevo la precisa coscienza di essere una bambina, e questo spiegava tutti i miei gravi difetti, e avevo riposto tanta fiducia nel fatto che un giorno sarei cresciuta — e quell’uomo grande e grosso si era lasciato ingannare da una sfrontatella. Egli uccideva in me per la prima volta la mia fiducia negli adulti: anche lui, che era un uomo, credeva come me nelle grandi menzogne...
... E all’improvviso, con il cuore palpitante di delusione, non resistetti più neppure per un attimo — senza prendere il quaderno corsi via verso il parco, la mano sulla bocca come se mi avessero rotto i denti. Con la mano sulla bocca, atterrita, correvo, correvo per non fermarmi mai, la prece profonda non è quella che chiede, la prece più profonda è quella che non chiede più — io corsi, correvo molto spaventata.
Nella mia impurità avevo deposto negli adulti la mia speranza di redenzione. La necessità di credere nella mia futura bontà faceva sì che venerassi i grandi, che avevo fatti a mia immagine, ma a una immagine di me finalmente purificata dalla penitenza della crescita, libera finalmente dalla sporca anima di bambina. E tutto questo il maestro ora lo distruggeva, e distruggeva il mio amore per lui e per me stessa. Salvarmi sarebbe stato impossibile: quell’uomo era anche me. Il mio amaro idolo che era caduto ingenuamente nelle astuzie di una bambina confusa e senza candore, e che si era lasciato docilmente guidare dalla mia diabolica innocenza... Tappandomi la bocca con la mano, correvo nella polvere del parco.
Quando finalmente mi accorsi di essere ben lontana dall’orbita del maestro, frenai esausta la corsa, e quasi sul punto di cadere mi appoggiai con tutto il peso del corpo al tronco di un albero, respirando forte, respirando. Lì rimasi ansimante e a occhi chiusi, sentendo in bocca l’amaro polveroso del tronco, le dita passavano e ripassavano meccanicamente sulla dura incisione di un cuore con freccia. E a un tratto, stringendo gli occhi chiusi, gemetti nel comprendere un po’ di più: forse lui voleva dire che... che io ero un tesoro nascosto? Il tesoro dove meno ci si aspetta... Oh no, no, poveretto, povero re del Creato, a tal punto aveva avuto bisogno... di che cosa? di che cosa aveva avuto bisogno?... che persino io mi trasformassi in tesoro.
Avevo ancora molta altra corsa dentro di me, forzai la mia gola secca a riprender fiato, e respingendo rabbiosamente il tronco dell’albero ripresi a correre in direzione della fine del mondo.
Ma non avevo ancora scorto l’ombroso confine del parco, e già i miei passi si andarono facendo più lenti dalla troppa stanchezza. Non ce la facevo più. Era forse per la fatica, ma stavo crollando. Erano passi sempre più lenti e il fogliame degli alberi ondeggiava lentamente. Erano passi un po’ incantati. Esitando mi fermai, gli alberi roteavano alti. È che una dolcezza assai strana affaticava il mio cuore. Intimidita, esitavo. Ero sola nel prato, reggendomi in piedi a fatica, senza punti d’appoggio, con una mano sul petto stanco come quella di una vergine annunciata. E piegando stanca a quella prima dolcezza un capo finalmente umile che da molto lontano poteva forse ricordare quello di una donna. La chioma degli alberi ondeggiava avanti e indietro. «Sei una bambina molto strana, sei una pazzerella», aveva detto. Era come un amore.
No, io non ero strana. Senza neppure saperlo ero molto seria. No, non ero pazzerella, la realtà era il mio destino ed era proprio questo che feriva gli altri. E, per Dio, io non ero un tesoro. Ma se già prima avevo scoperto in me tutto l’avido veleno con cui si nasce e con cui si rode la vita — solo in quell’attimo di miele e fiori scoprivo in che modo sarei guarita: se uno mi avesse amata, così avrei guarito chi avesse sofferto per me. Io ero l’oscura ignoranza con le sue fami e le sue risa, con le piccole morti che alimentavano la mia inevitabile vita che cosa potevo fare? Io sapevo già di essere inevitabile. Ma anche se non valevo niente, ero stata tutto ciò che quell’uomo aveva avuto in quel momento. Almeno una volta egli doveva amare, e anche se non qualcuno — attraverso qualcuno. E là c’ero stata solo io. Eppure era proprio questo il suo unico vantaggio: avendo soltanto me, e obbligato ad amare per prima cosa il cattivo aveva incominciato con ciò che pochi arrivano a raggiungere. Sarebbe stato troppo facile amare il pulito; irraggiungibile dall’amore era il brutto, amare l’impuro era la nostra più profonda nostalgia. Attraverso me, la difficile da amare, egli aveva ricevuto, con grande carità verso se stesso, ciò di cui siamo fatti. Compresi io tutto questo? No. E non so che cosa sul momento compresi. Ma come per un attimo avevo visto nel maestro, con atterrito fascino, il mondo — e ancora adesso non so capire che cosa vidi, — solo che per sempre e in un secondo io vidi — cosi compresi noi tutti, e non saprò mai che cosa compresi. Non saprò mai ciò che comprendo. Qualsiasi cosa io abbia compreso nel parco, fu, in un sussulto di dolcezza, compreso dalla mia ignoranza. Ignoranza che lì in piedi — in una solitudine senza dolore, non minore di quella degli alberi — ricuperavo intera, l’ignoranza e la sua verità incomprensibile. Eccomi là, bambina troppo sveglia, ed ecco che quanto dipeggio era in me serviva a Dio e agli uomini. Il peggio di me era il mio tesoro.
Come una vergine annunciata, sì. Permettendomi di farlo finalmente sorridere, con questo mi aveva annunciata. Ed aveva finito col trasformarmi in qualcosa di più del re del Creato: aveva fatto di me la donna del re del Creato. Perché proprio a me, così piena di artigli e di sogni, era toccato di strappare dal suo cuore la freccia uncinata. Di colpo era chiaro perché ero nata con le mani dure, e perché ero nata senza ripugnanza per il dolore. A cosa ti servono quelle unghie lunghe? Per graffiarti a morte e per estirpare i tuoi crucci mortali, risponde il lupo dell’uomo. A cosa ti serve quella crudele bocca affamata? Per morderti e per soffiare perché io non ti dolga troppo, amor mio, giacché debbo farti del male, io sono il lupo inevitabile, poiché mi è stata donata la vita. A cosa tiservono quelle mani che bruciano e afferrano? Per tenerci per mano, perché ne ho tanto tanto tanto bisogno — ulularono i lupi, e guardarono intimiditi i propri artigli prima di accoccolarsi uno contro l’altro per amare e dormire... E fu così che nel gran parco della scuola lentamente cominciai a imparare ad essere amata, sopportando il sacrificio di non meritarlo, solo per addolcire la pena di chi non ama. No, questo era soltanto uno dei motivi. Ma gli altri fanno parte di altre storie. E in qualcuna è stato dal mio cuore che altri artigli pieni di duro amore hanno divelto la freccia uncinata, e senza scomporsi al mio grido.



Clarice Lispector (1920-1977), Os desastres de Sofia (da A legião estrangeira, 1964)

Cadena perpetua

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«Migliaia di spagnoli sono scesi in piazza nei giorni scorsi per chiedere il reinserimento dell'ergastolo nel codice penale. A scatenare la mobilitazione popolare l'omicidio di Marta del Castillo, una giovane assassinata dal suo ex-ragazzo ventenne, e quello della piccola Mari Luz, uccisa da un pedofilo...»

Ergastolo spagnolo, da Internazionale.it (leggi tutto)

Sullo stato del dibattito in Spagna: Cadena perpetua? Peor: 40 años de cárcel (Mónica C. Belaza, 25 febbraio 2009 — da El País.com)

mercoledì

La malinconia di Luz

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(Immagine: Raidor)


S
i chiama Luz, ha compiuto sedici anni e il suo splendore è spento dalla malinconia. I suoi genitori non riescono a scoprire quale mistero ha adombrato il suo volto e sta minando il suo rendimento scolastico.
“Temo che la questione sia ben più grave di quel che pensavo”, afferma enigmatico il medico. “Nonostante sia una ragazza delicata e bella, Luz detesta il proprio corpo. E non pensate si tratti di un problema di transessualità. No. Lei è soddisfatta della sua femminilità, ma è come se aspirasse a essere di un’altra natura che non sa ben spiegare. Dice che si sente polverizzata e liquida. È come se un qualche gene, addormentato in lei fin dalla nascita, adesso si stesse risvegliando”.
Di ritorno a casa, i genitori camminano angosciati e in silenzio. Ora senza dubbio si tormentano per aver disprezzato il nome che la neonata portava inciso sul braccialetto quando la adottarono: Rugiada.


Antonio Serrano Cueto, La melancolía de Luz

Un relato breve fra luce, aria e acqua, dello spagnolo Antonio Serrano Cueto (tradotto dal suo blog El baile de los Silenos)

martedì

«Vorrei un decreto...»

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«Ho bisogno di un piacere. Un piacere personale. Ho bisogno che qualcuno mi faccia un decreto, magari in tre giorni come va di moda adesso. Vorrei un decreto che obblighi lo Stato e le amministrazioni comunali a somministrare idratazione e nutrimento ai barboni. No, perché ne è morto un altro e solo a Milano dall'inizio dell'anno fanno otto. Otto persone non sono poche. No, perché, sa, stiamo tanto a parlare della vita, a difendere la vita ai moribondi e poi ci crepano sotto gli occhi quelli vivi e vegeti e non facciamo un plissé. Ecco, sono sicura che i barboni gradirebbero una bella flebo di branzino... pagata dalla Asl magari...

Ma come mai i clochard non interessano a nessuno? È perché tanto non votano? Oppure la vita loro vale meno? Probabilmente sì, visto che ogni due per tre gli diamo fuoco. Che può essere un modo per risolvere il problema, per carità... È partita sta moda qua, purtroppo. Dar fuoco alle persone. Come fossero bastoncini di incenso. Se uno si annoia, appicca il fuoco e poi se ne torna in birreria a ruttare con gli amici. D’altronde il sudoku, il biliardo e i video games richiedono un minimo di cervello, invece sventolare l’accendino no... Anche a stare nella casa del Grande Fratello, un po’ si fatica, capace che ti chiedono i nomi dei sette nani a memoria, per dire... sono già delle belle prove di intelletto.

Invece, a girare con due fiammiferi e un po’ di benzina, basta un neurone. No, perché nel cranio di questi deficienti due pensieri passano. Il primo: «Se ho i soldi, minchia compro ». Il secondo: «Se non ho i soldi minchia spacco qualcosa, picchio un gay, do fuoco alle persone o stupro la compagna di classe. Altrimenti come lo passo, tutto questo tempo inutile che mi si spiana davanti?».

Caro amico, amico mio carissimo: posso dirti? Se non sai come passare il tempo, come svernare, fai una roba. Legati i testicoli con un cordino e poi fai il tiro alla fune. Vuoi dar fuoco a qualcosa? Ti consiglio i peli delle tue ascelle. Mettiti la maionese sul pisello e poi dallo da mangiare ai piranha. All’inizio dicono che si gode.

No, perché poi c’è la storia del branco, il branco... certo... se non sono in tre o quattro non riescono a fare le cavolate... In due magari hanno ancora la percezione, in tre o quattro invece... alè. Ma il peggio sono i genitori. Per i genitori sono sempre dei bravi ragazzi... «Sì, mio figlio ha dato fuoco ad un barbone ma poi ha cercato di spegnerlo». Ah beh, allora... È un boy-scout, praticamente: mentre faceva un falò col barbone cantava anche alelecicatonga, magari? Zitta, devi stare. Perché per dar fuoco a qualcuno devi avere un tale vuoto dentro di secoli, che la colpa è soprattutto tua. Hai tirato su un testa di minchia, poi ce l’hai scodellato per strada. Questa è la verità. Non è un bravo ragazzo. È uno scervellato criminale, cara. E tu come genitore dovresti insegnargli a vergognarsi. E a consolarlo ci pensi poi quando è in galera: spero per più tempo possibile.»

Luciana Littizzetto, Pensiero debole (20 febbraio 2009 — da La Stampa.it)

Il sito ufficiale di Luciana Littizzetto

Carnevale

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I.
Mi sono mascherato da politico corrotto.
Sono stati tre giorni e quattro notti di impunità.

II.
Nella baldoria ho conosciuto un’odalisca.
Mi sono dilettato da sultano.

III.
L’ultima notte, escogitiamo di “metterci in contatto” dentro una cabina telefonica.
È stata la telefonata più gustosa che abbia mai fatto.

IV.
L’ho rincontrata passato martedì grasso. Il carnevale era già diventato ceneri e noialtri due ancora prendevamo fuoco…

V.
Non ci siamo incontrati più. Dopo aver attraversato la mia vita come una scuola di samba e ottenuto un bel 10 in tutte le competizioni, è sparita nel vasto viale del mondo, lasciandomi solo soletto a battere sul tamburo del mio cuore fasciato di stelle filanti.
Conservo ancora i coriandoli. Tutti raccolti fra i suoi capelli di odalisca.


Wilson Gorj, Carnaval — Minicontos em série

Dal Brasile l'ironia e lo stordimento di Wilson Gorj (tradotto da Simplicíssimo.com.br)

Il blog dell'autore: O muro e outras páginas

Wilson Gorj su Narcolessia delle giraffe

lunedì

Il banchiere e l'immigrato (Noche de ronda)

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(Rembrandt, Artemisia riceve le ceneri di Mausolo, 1634 — Museo del Prado, Madrid)



Il falò del capitalismo

I politici sembrano dei drogati dell'economia, vogliono subito tornare a “sballare”

«… Adam Smith avrebbe applaudito al falò del capitalismo moderno. Il fuoco non brucia solo i titoli tossici, ma anche le istituzioni e i singoli individui che hanno contaminato l'economia, quelli che non hanno mai letto Smith e credevano che i beni immobili potessero creare ricchezza. Allora lasciamoli bruciare.

Ma un piano alternativo per uscire dalla crisi – in linea con la dottrina di Smith – non è stato neanche discusso. Questo perché quelli che dovrebbero spegnere il fuoco non sono pompieri professionisti, ma sono gli stessi bambini che fino a poco fa giocavano con i fiammiferi. Su entrambe le sponde dell'Atlantico i signori della deregulation, che ha messo in ginocchio il capitalismo moderno, presiedono le commissioni che dovrebbero affrontare la crisi.

Se continua così, la storia dell'economia metterà la stretta creditizia e la recessione tra le catastrofi provocate dall'uomo nel nuovo millennio. Non c'è molto tempo per evitare gli errori del 1929 che trasformarono una recessione nella grande depressione.»

19 febbraio 2009, Loretta Napoleoni per Internazionale.it (leggi tutto)



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(Rembrandt, David suona l'arpa davanti a Saul, c. 1656 — Mauritshuis, La Hague)



Mentre l’economia globale affonda, le tensioni verso l’immigrazione aumentano

«C
ontrariamente ad alcuni previsioni, la crisi economica globale non ha causato un significativo calo del tasso di immigrazione globale. Per la maggior parte dei poveri immigrati la spinta a scappare dalla terribile povertà e dai conflitti politici resta molto più forte che qualsiasi marginale cambiamento nella salute economica delle nazioni ricche che cercano di raggiungere. Una volta che gli immigrati arrivano, però, l’economia in tracollo gioca un ruolo crescente nelle loro sorti – non solo perché è difficile trovare lavoro, ma anche perché la popolazione locale è sempre più ostile alla loro presenza.

Dal sud dell’Europa e dell’Africa all’America Centrale e al centro della Cina, arriva un crescente numero di esempi sia di governi che di individui che sfogano le loro frustrazioni sugli stranieri. Prendiamo l’Italia. “Dobbiamo essere cattivi con i clandestini”, ha dichiarato questa settimana il Ministro dell’Interno italiano Roberto Maroni. Il tasso di disoccupazione in Italia è previsto in aumento al 8,2 % nel 2009, rispetto al 6,7 % dello scorso anno. La nazione, che vanta una linea costiera di 4.500 km, si trova anche in prima linea rispetto all’immigrazione africana in Europa. Circa 36.000 immigrati sono arrivati sulle coste italiane nel 2008, in aumento rispetto ai 22.000 dell’anno precedente, secondo l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati. (Per dare la misura di quanto siano disperate le persone che cercano di arrivare in Italia, si noti che almeno in 525 sono morti nel tentativo.)…»

6 febbraio 2009, Jeff Disraeli per Time.com (leggi tutto l’articolo tradotto su Italiadallestero.info)



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(Rembrandt, La ronda di notte, 1642 — Rijksmuseum, Amsterdam)



Sicurezza fai da te: l’Italia delle ronde

«… C
entinaia di persone continuano a scendere per strada: girano di notte, torce e cellulari in mano, lo sguardo vigile. Uniti dal timore della criminalità straniera ci sono attempati signori, camicie verdi, comitati di quartiere, manipoli di amici. Una varietà umana che rivela un paese impaurito ma risoluto: l’Italia delle ronde. (…)

Servola, Trieste, sabato sera A riprova della pluriennale fedeltà alla Lega, Giorgio Marchesich, 54 anni, pelata lucida e parlantina fluida, tira fuori le tessere del Carroccio, a partire da quella del 1991. Quattro mesi fa ha fondato a Trieste i Volontari verdi: “Siamo i duri e puri del partito: seguiamo la corrente indipendentista di Mario Borghezio”. Beve un sorso di birra: “Vogliamo combattere la microcriminalità, ma il controllo del territorio è anche un atto di identità politica”. L’iniziativa però non è piaciuta né al sindaco, il forzista Roberto Dipiazza, né ai rappresentanti locali della Lega, che si sono subito dissociati. “I cani sciolti non sono apprezzati dai potentati” replica Marchesich. I Volontari verdi hanno escogitato le ronde in macchina. Ogni sera un paio di automobili girano per la città, come due volanti della polizia. La prima impresa, spiega Marchesich, è stata “derattizzare dai rom alcuni bar della periferia”. Senza violenza: solo spray al peperoncino e, in casi estremi, “qualche calcio nel sedere”. Giorgio Gherlanz, 49 anni, ristoratore, è un colosso con le basette lunghe e gli occhiali fumé: “Facciamo da deterrente. E funziona, perché siamo di sana, robusta e padana costituzione”. Accanto a lui Dario Dussi, 52 anni, annuisce ingrugnato. Di giorno lavora come amministrativo. Di sera veste in tenuta militare dalla testa ai piedi. “Non siamo tanto amati dalle forze dell’ordine” ammette “ma continueremo a vigilare: in questa città ci vogliono ordine e disciplina”.»

22 febbraio 2009, Antonio Rossetto per Panorama.it (leggi tutto)

venerdì

Nonsò

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C’era una volta un Principe che ritornando dalla caccia vide nella polvere, sul margine della via, un bimbo di forse otto anni che dormiva tranquillo. Scese da cavallo, lo svegliò:
— Che fai qui piccolino?
— Non so — rispose quegli, fissandolo senza timidezza.
— E tuo padre?
— Non so.
— E tua madre?
— Non so.
— Di dove sei?
— Non so.
Qual è il tuo nome?
— Non so.
Preso il bimbo in groppa, il Principe lo portò al suo castello e lo consegnò alla servitù, perché ne avesse cura.
E gli fu dato il nome Nonsò.
Quando ebbe vent’anni, il Principe lo prese per suo scudiero. Un giorno passando in città gli disse:
— Sono contento di te e voglio regalarti un cavallo, per tuo uso particolare.
Andarono alla fiera. Nonsò esaminava gli splendidi cavalli, ma nessuno gli piaceva e se ne andarono senza aver nulla comperato. Passando dinanzi ad un mulino videro una vecchia giumenta quasi cieca, che girava la macina. Nonsò guardò attentamente la bestia e disse:
— Signore, quello è il destriero che mi abbisogna!
— Tu scherzi!
— Signore, compratemelo e ne sarò felice.
Il Principe si sdegnò quasi, poi vedendo Nonsò supplicante, cedette alle sue preghiere e comperò la giumenta. Il mugnaio, consegnando la bestia a Nonsò, gli disse all’orecchio:
— Vedete questi nodi nella criniera della cavalla? Ogni volta che ne sfarete uno, essa vi porterà sull’istante a cinquecento leghe lontano.
Ritornarono a casa.
Pochi giorni dopo il Principe venne invitato dal Re, e Nonsò fu ospite col suo signore nel palazzo reale. Una notte di plenilunio passeggiava nel parco e vide appesa ad un albero una collana di diamanti che scintillava alla luna.

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— Prendiamola, dunque... — disse ad alta voce.
— Guardati bene o te ne pentirai! — fece una voce ignota e vicina.
Si guardò intorno. Chi aveva parlato era il suo cavallo. Esitò un poco, ma poi si lasciò vincere dal desiderio e prese la collana.
Il Re aveva affidato a Nonsò la cura di alcuni suoi cavalli e di notte egli illuminava la sua scuderia con la collana sfavillante. Gli altri stallieri, gelosi di lui, cominciarono ad insinuare che nella scuderia di Nonsò splendeva una luce sospetta, che egli si dava a stregonerie misteriose. Il Re volle spiarlo; e una notte, entrando di subito nella scuderia, vide che la luce veniva dalla collana abbagliante, appesa ad una mangiatoia. Fece arrestare il giovane e convocò i saggi della capitale perché decifrassero una parola scritta sul fermaglio della collana. Uno studioso decrepito scoperse che il monile era della Bella dalle Chiome Verdi, la principessa più sdegnosa del mondo.
— Bisogna che tu mi conduca la principessa dalle Chiome Verdi — disse il Sovrano — o non c’è che la morte per te.
Nonsò era disperato.
Andò a rifugiarsi dalla vecchia giumenta e piangeva sulla sua magra criniera.
— Conosco la causa del tuo dolore — gli disse la bestia fedele, — è venuto il giorno del pentimento per la collana presa contro mio consiglio. Ma fa’ cuore ed ascoltami. Chiedi al Re molta avena e molto danaro, e mettiamoci in viaggio.
Il Re diede avena e danaro e Nonsò si mise in viaggio con la sua cavalla sparuta. Arrivarono al mare. Nonsò vide un pesce prigioniero fra le alghe.
— Libera quel poveretto! — gli consigliò la cavalla.
Nonsò ubbidì, e il pesce, emergendo con la testa sull’acqua, disse:
— Tu mi hai salvata la vita e il tuo benefizio non sarà dimenticato. Se tu abbisognassi di me, chiamami e verrò.
Poco dopo videro un uccello preso alla pania.
— Libera quel poveretto! — gli consigliò la giumenta.
Nonsò ubbidì e l’uccello disse:
— Grazie, Nonsò; quando ti sia necessario, chiamami e saprò sdebitarmi.
Giunsero dinanzi al castello della principessa.
— Entra — disse la giumenta — e non temere di nulla. Quando vedrai la Bella, invitala ad accompagnarti qui. Io danzerò per lei danze meravigliose.
Nonsò bussò al palazzo. Aprì una dama bellissima, ch’egli prese per la principessa in persona.
— Principessa...
— Non son io la principessa.
E l’accompagnò in un’altra sala dove l’attendeva una fanciulla più bella ancora.
E questa a sua volta l’accompagnò in una sala attigua da una compagna più bella di lei; e così di sala in sala, da una dama all’altra, sempre più bella, per abituare gli occhi di Nonsò alla bellezza troppo abbagliante della Bella dalle Chiome Verdi.
Questa lo accolse benevolmente, e dopo un giorno accondiscese a vedere la giumenta danzatrice.
— Saltatele in groppa, principessa, ed essa danzerà con voi danze meravigliose.
La Bella, un poco esitante, ubbidì.
Nonsò le balzò accanto, sciolse uno dei nodi della criniera e si trovarono di ritorno dinanzi al palazzo del Re.
— M’avete ingannata — gridava la principessa, — ma non mi do per vinta, e prima d’essere la sposa del Re vi farò piangere più d’una volta...
Nonsò sorrideva soddisfatto.
— Sire, eccovi la Bella dalle Chiome Verdi!
Il Re fu abbagliato di tanta bellezza e voleva sposarla all’istante.
Ma la principessa chiese che le si portasse prima una forcella d’oro tempestata di gemme che aveva dimenticato nello spogliatoio del suo castello.
E Nonsò fu incaricato dal Re della ricerca, pena la morte. Il giovane non osava ritornare al castello della Bella dalle Chiome Verdi, dopo il rapimento, e guardava la sua giumenta, accorato.
— Ti ricordi — disse questa — d’aver salvata la vita all’uccello impaniato? Chiamalo e t’aiuterà.

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N
onsò chiamò e l’uccello comparve.
— Tranquillati, Nonsò! La forcella ti sarà portata.
E adunò tutti gli uccelli conosciuti, chiamandoli a nome. Comparvero tutti, ma nessuno era abbastanza piccolo per entrare dalla serratura nello spogliatoio della Bella. Vi riuscì finalmente il reattino, perdendovi quasi tutte le penne, e portò la forcella al desolato Nonsò. Nonsò presentò la forcella alla principessa.
— Al presente — disse il Re — voi non avete più motivo per ritardare le nozze.
— Sire, una cosa mi manca ancora e senza di essa non vi sposerò mai.
— Parlate, principessa, e ciò che vorrete sarà fatto.
— Un anello mi manca, un anello che mi cadde in mare, venendo qui...
Venne ingiunto a Nonsò di ritrovare l’anello, e quegli si mise in viaggio con la giumenta fedele. Giunto in riva al mare chiamò il pesce e questo comparve.
— Ritroveremo l’anello, fatti cuore!
E il pesce avvertì i compagni; la notizia si sparse in un attimo per tutto il mare e l’anello venne ritrovato poco dopo, tra i rami d’un corallo.
La principessa dovette acconsentire alle nozze.
Il giorno stabilito s’avviarono alla cattedrale con gran pompa e cerimonia.
Nonsò e la cavalla seguivano il corteo regale ed entrarono in chiesa con grave scandalo dei presenti.
Ma quando la cerimonia fu terminata, la pelle della giumenta cadde in terra e lasciò vedere una principessa più bella della Bella dalle Chiome Verdi. Essa prese Nonsò per mano:
— Sono la figlia del re di Tartaria. Vieni con me nel regno di mio padre e sarò la tua sposa.
Nonsò e la principessa presero congedo dagli astanti stupefatti, né più se n’ebbe novella.


Guido Gozzano (1183-1916), Nonsò

(Tratto da La danza degli gnomi e altre fiabe, Editoriale Opportunity Book, 1995 — illustrazioni: Sergey Tyukanov)

100 anni di futuro

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Una bella intervista a Rita Levi-Montalcini (Paolo Giordano su Wired.it)

giovedì

«Erano belle giornate. Li facevano scendere dagli aerei...»

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«Non è fatto nuovo né cosa impossibile che, come fa sempre, Silvio Berlusconi neghi d'aver detto ciò che ha detto. Ma stavolta ha passato il segno con un chiste che offende la memoria dei desaparecidos e "alleggerisce" la mano dei loro assassini. A Cagliari, la capitale della Sardegna, ha dedicato una parte del suo discorso in un meeting della campagna elettorale, sabato passato, al suo piatto forte: i chistes o, come dicono gli italiani, le barzellette.
Inaspettatamente ha trattato un nuovo tema a proposito del quale non aveva mai parlato, neppure sul serio. Le migliaia di persone scomparse durante la dittatura militare argentina. Molti furono buttati giù dagli aerei. "Erano belle giornate, li facevano scendere dagli aerei"...»

18 febbraio 2009, Julio Algañaraz, Berlusconi: escándalo por un chiste sobre los desaparecidos argentinos (tradotto da Clarín.com)

mercoledì

Una canzone d'amore


Quando você foi embora, fez-se noite em meu viver
Forte eu sou mas não tem jeito
Hoje eu tenho que chorar
Minha casa não é minha e nem é meu este lugar
Estou só e não resisto,muito tenho pra falar
Solto a voz nas estradas, já não quero parar
Meu caminho é de pedra como posso sonhar
Sonho feito de brisa, vento vem terminar
Vou fechar o meu pranto
Vou querer me matar
Vou seguindo pela vida, me esquecendo de você
Eu não quero mais a morte, tenho muito que viver
Vou querer amar de novo e se não der não vou sofrer
Já não sonho, hoje faço
Com meu braco o meu viver
Solto a voz nas estradas, já não quero parar
Meu caminho é de pedra, como posso sonhar?
Sonho feito de brisa, vento vem terminar
Vou fechar o meu pranto
Vou querer me matar


Elis Regina, Travessia, 1967

Déjà vu

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Camminano invasi dalla nebbia che è il già aver vissuto quella via, quel momento — passato l'angolo si incontrano, si riconoscono, da svegli.

Lui cerca nello sguardo di lei un indizio per poter decifrare quel che ha visto nei sogni; lei corre, fugge dagli occhi coi quali, tutte le notti, l'incubo ha inizio.


Edilberto Aldán, Déjà vu

(Tradotto dal blog dell'autore Recuerdos inútiles)

lunedì

Ricapitolando (Mortificazioni italiane)

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La foto di Eluana

In certe occasioni, un’immagine non vale più di mille parole. Al contrario, una fotografia può distorcere la realtà e servire da alibi in una battaglia tanto sterile quanto ingiusta. In Italia se n’è prodotto un esempio chiaro nella morte di Eluana Englaro, la donna di 38 anni morta dopo averne passati 17 in stato vegetativo a causa di un incidente d’auto avvenuto quando ne aveva 21. La sua famiglia ha patito un calvario giudiziario di dieci anni per ottenere il diritto di non prolungarle la vita artificialmente, in un paese dove non esiste una legge sul testamento biologico come quella spagnola e che non permette l’eutanasia.
Che tipo di stato obbliga i suoi cittadini a lottare tanto per un obiettivo così disgraziato? Che tipo di società insulta e maltratta un padre che vede come unico cammino per riconquistare la volontà di sua figlia (la quale aveva espresso con chiarezza il suo desiderio di non voler vivere nelle condizioni che le sono toccate), quello di permettere che muoia di fame e sete? Eluana che sorride sulla neve. Eluana con il cappello guardando verso la macchina fotografica. Eluana che si copre con la tenda della doccia, scherzando con chi la stava ritraendo.
Questa non era la malata di 40 chili, piagata, atrofizzata e irrecuperabile alla quale il padre faceva visita tutti i giorni e che il primo ministro Silvio Berlusconi non ha voluto conoscere, nonostante sia stato invitato. Perchè, lì o quì, è più facile fare leggi contro gli altri poteri dello stato e contro il sentimento comune, se non si affronta la dura verità, questo è lo stato attuale delle cose. La sera in cui Eluana moriva, i politici litigavano come gatti cercando di portar avanti, con urgenza, una legge che la attaccasse per sempre alla macchina, un testo irrazionale, che poi è stato ritirato perchè spaventoso, persino per i medici ultraconservatori.
Quella stessa sera, la maggioranza degli italiani sceglieva in televisione tra i programmi sul caso di Eluana e il Grande Fratello. Ha vinto quest’ultimo, trasmesso in uno dei canali di Berlusconi. L’audience ha preferito la finzione più dolce e inutile, convenientemente impacchettata e pronta per essere consumata. L’altra finzione, la ragazza mora esultante che in qualsiasi momento si sarebbe alzata dal letto, era troppo difficile da mandar giù.
La Chiesa cattolica, non voleva perdere una partita sul suo campo. Magari si fosse mostrata così belligerante quando venivano bombardate case piene di bambini a Gaza o quando il governo perseguita gli immigrati che scappano dalla fame a due passi dai suoi templi. Dimenticando uno dei principi più belli della sua religione, la compassione per la sofferenza del prossimo, i fedeli hanno montato decine di altarini con la foto della bella ragazza che non esisteva più. Dimenticando anche che Gesù Cristo ebbe la possibilità di scappare ma, avvalendosi della sua libertà personale, preferì seguire il suo cammino, quello di una morte certa.


(12 febbraio 2009: traduzione di Italia dall'estero.info dal «Diario de Mallorca» — leggi l'articolo originale)

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Senza coscienza

Il corpo indifeso di Eluana Englaro ha dovuto partecipare alla prova generale per verificare quanto siano labili i confini dello Stato di Diritto in Italia. E il fatto che il Vaticano abbia cinicamente applaudito rinnova il dubbio, se lì si sia arrivati nel 21° secolo.
Eluana Englaro è morta. Ma ha dovuto recitare fino all’ultimo il triste ruolo a cui il Presidente del Consiglio italiano l’ha costretta al termine della sua vita. Apparentemente allo scopo di salvare la giovane donna in coma da 17 anni, Silvio Berlusconi voleva imporre oggi [martedì] una legge che avrebbe confermato la sua vocazione ad essere l’uomo forte che se ne frega delle regole quando c’è da fare del bene. Sulle questioni dell’inizio e della fine della vita si può e si deve discutere. Della dimensione politica di tutto ciò, invece, c’è poco da discutere. Il Presidente della Repubblica Napolitano non ha firmato un primo decreto di Berlusconi perché in esso vedeva calpestata la separazione dei poteri. Ma anche una legge – se dovesse comunque andare in porto – sarebbe contraria alla Costituzione, perché sarebbe intesa ad invalidare con effetto retroattivo una sentenza di tribunale. Non si è trattato di dare un aiuto – sono anni che si attende una legge sul testamento biologico. Si è trattato invece delle prove generali, a spese del corpo indifeso della Englaro, per verificare quanto labili siano i confini dello Stato di Diritto. E il fatto che il Vaticano abbia applaudito questo cinico gesto fa sorgere nuovi dubbi, dopo quelli sulla questione dei lefebvriani, se lì si sia davvero arrivati nel 21° secolo.


(10 febbraio 2009: traduzione di Italia dall'estero.info da «Der Tagesspiegel» — leggi l'articolo originale)

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Il destino di una donna in coma lasciato nelle mani di Berlusconi

Il Primo Ministro vuole una legge per prevalere sulla Corte di Cassazione.

Il caso strappalacrime di una donna in stato di coma da 17 anni e del padre che combatte perché possa cessare di vivere é stato trasformato dal Primo Ministro Silvio Berlusconi, con il silenzioso ma robusto sostegno del Vaticano, nel tentativo di scavalcare la Costituzione italiana accrescendo in tal modo i suoi poteri.
Eluana Englaro, di 38 anni, quando aveva 21 anni ha subito un grave danno cerebrale a causa di un incidente automobilistico che l’ha ridotta in uno stato vegetativo permanente. Dopo aver lottato per anni nei tribunali per fermare l’alimentazione forzata, suo padre Beppino, lo scorso anno ha finalmente vinto la battaglia con la Corte di Cassazione, la massima Corte in Italia. Ma i politici cattolici, sostenuti dalle gerarchie ecclesiastiche, hanno continuato a combattere malgrado il verdetto della Corte. Il caso é così diventato una battaglia di carattere nazionale per la coalizione “per la vita”.
Ora Eluana é in una clinica nel nord-est Italia, a Udine, dove i medici stanno gradualmente diminuendo l’alimentazione sostituendola con sedativi e anti-convulsivi. Ma in settimana Berlusconi ha provato a introdurre un cosiddetto decreto legge (in italiano nel testo, N.d.T.), un diktat ufficiale, per obbligare la clinica a riprendere l’alimentazione forzata.
Il capo dello Stato, il Presidente Giorgio Napolitano, ha rifiutato di firmare il decreto perché esso “non ha superato le obiezioni di incostituzionalità”. Berlusconi é stato respinto pertanto dal capo dello Stato e dalla più alta Corte del Paese ma ciò non lo ha fermato.
Invece, ha annunciato la sua intenzione immediata di creare una regolare legge facendola passare in entrambe le Camere del Parlamento entro tre giorni, in modo da scongiurare così la morte di Eluana. Berlusconi ha detto: “Per come la vedo io, dobbiamo fare tutto il possibile per evitare la morte di una persona la cui vita é in pericolo non a causa del danno cerebrale. Si tratta di una persona che respira autonomamente, una persona le cui cellule cerebrali sono vive e inviano segnali elettrici, una persona che ipoteticamente può concepire un figlio”.
L’ultima affermazione ha provocato stupore e disgusto; é sembrato che Berlusconi abbia voluto ridurre la femminilità allo status di macchina per la riproduzione. Secondo un’altra angolatura, la sfida alle più alte istituzioni statali da parte del Primo Ministro é stata interpretata come un attacco alla costituzione. Berlusconi ha risvegliato i timori che i poteri del Primo Ministro vengano accresciuti a detrimento dei poteri che li controbilanciano. Prima di Natale, ha detto ai giornalisti di avere intenzione di muovere l’Italia verso un sistema presidenziale, così da poter disporre di “velocità nel prendere decisioni e più ampi poteri”, in linea con “gli altri paesi”. Ora i suoi critici temono che abbia trovato lo strumento ideale.
James Walston, un professore di Politica Italiana all’Università Americana di Roma, ha detto: “Ha tagliato fuori la magistratura, il Presidente e il Parlamento. Se il decreto passerà, la carica di Primo Ministro sarà molto più potente perché così si sarà sbarazzato definitivamente di quei poteri che mantengono il controllo su di lui”.
Ma Gianfranco Fini, il Presidente della Camera dei Deputati ha detto ieri: “Qual é il limite tra un vegetale e un essere vivente? Ritengo che solo i genitori di Eluana abbiano il diritto di dare una risposta a questa domanda”.


(9 febbraio 2009: traduzione di Italia dall'estero.info da «The Independent» — leggi l'articolo originale)

Copertine

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Il sito di «Internazionale»

giovedì

Casa occupata

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Ci piaceva la casa perché oltre ad essere spaziosa e antica (ora che le case antiche soccombono alla più vantaggiosa liquidazione dei loro materiali) conservava i ricordi dei nostri bisavoli, del nonno paterno, dei nostri genitori e di tutta la nostra infanzia.

Ci abituammo, Irene ed io, a persistervi da soli, cosa che era una follia perché in quella casa potevano vivere otto persone senza darsi fastidio. Facevamo le pulizie il mattino, alzandoci alle sette, e intorno alle undici lasciavo a Irene le ultime camere da spolverare per andare in cucina. Pranzavamo a mezzogiorno, sempre puntuali; non restava molto da sbrigare, tranne pochi piatti sporchi. Era piacevole pranzare pensando alla casa profonda e silenziosa e a come bastassimo noi soli per mantenerla pulita. A volte arrivammo a credere che fosse lei a impedire che ci sposassimo. Irene rifiutò due pretendenti senza seri motivi, e a me morì Maria Esther prima che decidessimo di fidanzarci ufficialmente. Ci affacciamo alla quarantina con l’inespressa convinzione che il nostro semplice e silenzioso matrimonio di fratelli fosse la necessaria conclusione della genealogia fondata dai bisavoli nella nostra casa. Un giorno saremmo morti là, cugini improbabili e schivi avrebbero ereditato la casa e l’avrebbero rasa al suolo per arricchirsi con il terreno e i mattoni; o meglio, noi stessi l’avremmo abbattuta come giustizieri prima che fosse troppo tardi.
Irene era una ragazza nata per non dare noia a nessuno. Tolte le attività del mattino, trascorreva la giornata facendo lavori a maglia sul sofà o in camera sua. Non so perché tessesse tanto, credo che i lavori a maglia siano per le donne il grande pretesto per non fare niente. Irene non era così, ordiva sempre cose necessarie, golf per l’inverno, calze per me, liseuse e sottovesti per lei. Qualche volta tesseva una sottoveste e poi la disfaceva in un momento perché qualcosa non le piaceva; era divertente vedere nel cestino il mucchio di lana increspata che si rifiutava di perdere la sua forma di poche ore. Il sabato ero io che andavo in centro a comprarle la lana; Irene si fidava del mio gusto, era contenta dei colori e non dovetti mai restituire alcuna matassa. Profittavo di queste uscite per fare un giro nelle librerie e domandare inutilmente se c’erano novità di letteratura francese. Dal 1939 non arrivava niente di importante in Argentina.
Ma è della casa che mi interessa parlare, della casa e di Irene, perché io non conto. Mi domando che cosa avrebbe fatto Irene senza i lavori a maglia. Si può rileggere un libro, ma quando un pullover è finito non si può ripeterlo impunemente. Un giorno trovai l’ultimo cassetto del comò di canfora pieno di scialletti bianchi, verdi, lilla. Erano in naftalina, appilati come in una merceria; non ebbi il coraggio di domandare a Irene cosa pensasse di farne. Non avevamo bisogno di guadagnarci da vivere, tutti i mesi arrivavano i soldi della campagna e il denaro aumentava. Ma Irene si svagava solo con i lavori a maglia, dimostrava un’abilità meravigliosa e a me fuggivano le ore guardandole le mani simili a ricci argentei, ferri in su e in giù e uno o due cestini a terra dove si agitavano costantemente i gomitoli. Era bello.

Come potrei dimenticare la distribuzione della casa. La stanza da pranzo, una sala con arazzi, la biblioteca e tre grandi camere da letto rimanevano nella parte più interna, quella che guarda su Rodríguez Peña. Solo un corridoio con la sua massiccia porta di rovere isolava quella parte dall’ala frontale dove si trovavano un bagno, la cucina, le nostre camere da letto e il living centrale, con il quale comunicavano le camere da letto e il corridoio. Si entrava nella casa attraversando un atrio con maioliche, e la porta finestra dava sul living. Di modo che si entrava attraverso l’atrio, si apriva il cancello e si passava nel living; si avevano allora sui due lati le porte delle nostre camere da letto, e di fronte il corridoio che conduceva nella parte più interna; continuando per il corridoio, si oltrepassava la porta di rovere e più oltre cominciava l’altro lato della casa, oppure si poteva girare a sinistra proprio davanti alla porta e proseguire per un corridoio più stretto che portava in cucina e in bagno. Quando la porta era aperta ci si accorgeva subito che la casa era molto grande; altrimenti dava l’impressione di uno di quegli appartamenti che si costruiscono adesso, fatti per muoversi appena; Irene ed io vivevamo sempre in questa parte della casa, quasi mai oltrepassavamo la porta di rovere, salvo che per fare le pulizie, perché è incredibile quanta terra si accumuli sui mobili. Buenos Aires sarà una città pulita, ma lo deve ai suoi abitanti e non ad altro. C’è troppa terra nell’aria, appena soffia un po’ di vento si palpa la polvere sui marmi delle consolle e fra i rombi dei centrini di macramè; è una vera fatica toglierla bene con il piumino, vola e resta sospesa in aria, un momento dopo si deposita di nuovo sui mobili e sui ripiani.

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Lo ricorderò sempre con precisione perché fu semplice e senza particolari inutili. Irene stava lavorando a maglia in camera sua, erano le otto di sera e all’improvviso mi venne in mente di mettere sul fuoco il bricco del mate. Mi avviai per il corridoio fino a trovarmi davanti alla porta di rovere che era socchiusa, e stavo girando verso la cucina quando sentii qualcosa nella sala da pranzo o nella biblioteca. Il suono arrivava indistinto e sordo, come il rovesciarsi di una sedia sul tappeto o un soffocato sussurro di conversazione. Lo udii anche, nello stesso momento o un secondo più tardi, in fondo al corridoio che andava da quelle stanze alla porta. Mi gettai contro la porta prima che fosse troppo tardi, la chiusi di colpo appoggiandomici con il corpo; fortunatamente la chiave era infilata dalla nostra parte e inoltre feci scorrere il grande chiavistello per maggior sicurezza.
Andai in cucina, scaldai il bricco, e quando fui di ritorno con il vassoio del mate dissi a Irene:
– Ho dovuto chiudere la porta del corridoio. Hanno occupato la parte in fondo.
Lasciò cadere il lavoro a maglia e mi guardò con i suoi gravi occhi stanchi.
– Ne sei sicuro?
Annuii.
– Allora, – disse raccogliendo i ferri, – dovremo vivere da questo lato.
Io preparavo il mate con molta cura, ma lei tardò un istante a riprendere il suo lavoro. Ricordo che stava facendo una sottoveste grigia; mi piaceva quella sottoveste.
I primi giorni ci sembrò penoso perché entrambi avevamo lasciato nella parte occupata molte cose che amavamo. I miei libri di letteratura francese, per esempio, erano tutti nella biblioteca. Irene sentiva la mancanza di certe tovagliette, di un paio di pantofole che le tenevano tanto caldo in inverno. Io rimpiangevo la mia pipa di ginepro e credo che Irene pensasse a una bottiglia di Esperidina oramai antica. Frequentemente (ma questo accadde solo nei primi giorni) chiudevamo qualche cassetto dei comò e ci guardavamo con tristezza.
– Qui non c’è.
Ed era una cosa in più di tutto quel che avevamo perduto all’altro lato della casa.
Ma ne fummo anche avvantaggiati. Le pulizie furono talmente semplificate che anche alzandoci tardissimo, alle nove e mezzo per esempio, non erano ancora suonate le undici che già ce ne stavamo con le mani in mano. Irene si abituò a venire con me in cucina e ad aiutarmi a preparare il pranzo. Ci pensammo bene, e decidemmo così: mentre io preparavo il pranzo, Irene avrebbe cucinato piatti da mangiare freddi la sera. Ce ne rallegrammo perché è sempre seccante dover abbandonare le proprie camere sul far della sera e mettersi a cucinare. Adesso ci bastava la tavola in camera di Irene e i piatti freddi.
Irene era contenta perché le restava più tempo per lavorare a maglia. Io mi sentivo un po’ smarrito senza i libri, ma per non rattristare mia sorella presi a sfogliare la collezione di francobolli di papà, e questo mi servì ad ammazzare il tempo. Ci divertiamo molto, ciascuno occupato nelle cose sue, quasi sempre riuniti nella camera d’Irene, che era più comoda. A volte Irene diceva:
– Guarda il punto che mi è venuto. Non ti sembra il disegno di un trifoglio?
Un momento dopo ero io che le mettevo sotto gli occhi un quadratino di carta affinché ammirasse il valore di un francobollo di Eupen-et-Malmèdy. Stavamo bene, e a poco a poco cominciavamo a non pensare. Si può vivere senza pensare.

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(Quando Irene sognava ad alta voce io mi svegliavo subito. Non mi sono mai potuto abituare a quella voce da statua o da pappagallo, voce che viene dai sogni e non dalla gola. Irene diceva che i miei sogni erano fatti di grandi scossoni che qualche volta facevano cadere la coperta. Le nostre camere da letto erano divise dal living, ma di notte si sentiva tutto nella casa. Ci sentivamo respirare, tossire, presentivamo il gesto che conduce all’interruttore della lampadina, le mutue e frequenti insonnie.
A parte questo, tutto era silenzioso nella casa. Di giorno, solo i rumori domestici, lo strofinio metallico dei ferri da cucito, uno scricchiolio nel voltare le pagine dell’album filatelico. La porta di rovere, credo di averlo già detto, era massiccia. Nella cucina e nel bagno, che erano contigui alla parte occupata, ci mettevamo a parlare a voce più alta oppure Irene cantava qualche ninna-nanna. In una cucina c’è troppo rumore di stoviglie e bicchieri perché altri suoni vi irrompano. Quasi mai permettevamo lì il silenzio, ma quando tornavamo alle camere da letto e al living, allora la casa si faceva silenziosa e in penombra, camminavamo persino più piano per non darci noia a vicenda. Credo fosse per questa ragione che di notte, quando Irene cominciava a sognare ad alta voce, io mi svegliavo subito).
È quasi come ripetere la stessa cosa, salvo le conseguenze. Di notte mi viene sete, e prima di andare a letto dissi a Irene che andavo in cucina a prendere un bicchiere d’acqua. Dalla porta alla camera da letto (lei lavorava a maglia) udii il rumore in cucina; forse nella cucina o forse nel bagno perché il gomito del corridoio spegneva i suoni. Irene fu colpita dal modo brusco con cui mi fermai, e venne accanto a me senza dire una parola. Restammo ad ascoltare i rumori, notando distintamente che provenivano da questa parte della porta di rovere, nella cucina e nel bagno, o nello stesso corridoio, dove incominciava il gomito quasi al nostro fianco.
Non ci guardammo neppure. Strinsi il braccio di Irene e la feci correre con me fino alla porta finestra, non ci voltammo indietro. I rumori si udivano sempre più forti ma sempre sordi, alle nostre spalle. Chiusi d’un colpo la porta e restammo nell’atrio. Ora non si udiva nulla.
– Hanno occupato questa parte, – disse Irene. Il lavoro a maglia le pendeva dalle mani e i fili arrivavano fino alla porta e vi si perdevano sotto. Quando vide che i gomitoli erano rimasti dall’altro lato lasciò cadere il lavoro senza guardarlo.
– Hai avuto tempo di portare via qualcosa? – le domandai inutilmente.
– No, niente.
Restavamo con quel che avevamo indosso. Mi ricordai dei quindicimila pesos nell’armadio della mia camera da letto. Troppo tardi ormai.
Poiché mi era rimasto l’orologio da polso, vidi che erano le undici di sera. Cinsi con un braccio la vita di Irene (credo che lei stesse piangendo) e uscimmo in strada. Prima che ci allontanassimo, ebbi pietà, chiusi bene la porta d’entrata e gettai la chiave nel tombino. Che a un povero diavolo non venisse in mente di rubare e di entrare in casa, a quell’ora e con la casa occupata.

Julio Cortázar, Casa tomada, 1951

(Tratto da Bestiario, Einaudi 1974 — trad. italiana di Flaviarosa Nicoletti Rossini)

mercoledì

Eluana, cavallo di Troia dell’osceno potere

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(Foto: Edward Nunez)

«Di Eluana Englaro, crocifissa sul calvario del suo letto, non importa niente ad alcuno. E’ diventata un vessillo da issare nella guerra ignobile per assicurarsi una supremazia (Vaticano e Cei) o per rafforzare il proprio potere (governo). Berlusconi non è mai intervenuto sulla vicenda, eppure se ne parla da mesi in termini forti, ma si è sempre tenuto alla larga perché i sondaggi erano dalla parte della famiglia Englaro. Poi la svolta sulla via vaticana di Damasco.
Il Vaticano ha parlato, anzi ha chiesto (imposto?) un intervento e lui celere come un treno ad alta velocità è partito per la tangente affrettandosi subito a dichiarare che non bisogna scontentare la "chiesa". Per questo obiettivo funzionale al rafforzamento del suo governo e per accreditarsi come unico interlocutore della gerarchia cattolica, non ha esitato ad andare contro i sondaggi. Egli, infatti, è consapevole di sapere manipolare l’opinione pubblica. Ancora più vigliaccamente, non ha esitato a scaricare la responsabilità politica e morale sul Presidente della Repubblica, cogliendo l’occasione per buttargli addosso fango e ridicolizzare il suo ruolo di garante della costituzione, additandolo al ludibrio delle genti. O si fa come vuole lui, o annulla la costituzione. Non c’è altro nome per definirlo: "Alienum a costitutione".
Su tutto prevale la strumentalizzazione ignobile e immorale di una donna in coma da 17 anni e della sofferenza atroce di una famiglia che avrebbe diritto al silenzio dei non credenti e alla preghiera dei credenti. Chi li accusa di assassinio, se si fosse nel Medio Evo, accenderebbe i roghi e brucerebbe chi pensa diversamente. Sul corpo inerme e silente di una donna martire, s’intrecciano gli interessi congiunti di convergenze politiche e politico-pseudoreligiose per riposizionare il proprio vantaggio, fino al punto che il Vaticano si è schierato contro il Presidente della Repubblica ("ci ha deluso"), violando così apertamente il concordato che è la vera palla di piombo al piede della laicità dello Stato italiano. Si parla di "principi", senza rendersi conto che la guerra dei principi, e la storia ne è satura, ha sempre e solo lasciato sul terreno morti e genocidi...»

Don Paolo Farinella, Eluana, cavallo di Troia dell’osceno potere (da MicroMega-online: leggi tutto)

martedì

Calvario italiano

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(Foto: Virginia Harold)

«Eluana Englaro era "irriconoscibile" rispetto alle foto che tutti conoscono e vederla nel letto della casa di riposo La Quiete di Udine "è stato devastante": è la testimonianza della giornalista della Rai Marinella Chirico, che domenica pomeriggio ha visitato la donna, su invito dei genitori. La giornalista ha trascorso circa tre ore nella stanza di Eluana.

"Eluana - ha raccontato Marinella Chirico - era esattamente così come si può immaginare possa essere una donna in stato vegetativo da 17 anni: assolutamente irriconoscibile rispetto alle foto che si vedono. Una donna completamente immobile, che gli infermieri e i sanitari erano costretti a spostare ogni due ore per evitare che il corpo si piagasse. Le orecchie avevano delle lesioni perché l'unica parte che non si poteva tutelare era questa. Era una situazione devastante, emotivamente molto forte l'impatto"...»

Da La testimonianza di una giornalista Rai — "Eluana era irriconoscibile, devastante vederla" (Repubblica.it, 10 febbraio 2009): leggi tutto

lunedì

L'Italia è differente

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(Emigrati liguri in California tra fine '800 e inizio '900 — archivio Fabio Paveto)

«Gli italiani sono un popolo di emigranti. Già in epoca antica, con il nome di romani, viaggiavano verso la Spagna dei nostri nonni e vi si stabilivano. Negli ultimi due secoli hanno invaso l’America di manodopera in surplus in Europa, rendendo la pizza famosa nel mondo. Ora il Governo sbarra le porte e una legge di “tolleranza zero” vige per extracomunitari e nomadi...»

(6 febbraio 2009, Josep Pernau, Italia es diferente: leggi tutto l'articolo tradotto dalla testata «El Periódico de Catalunya» — su Italiadallestero.info)

Unveiled: altre visioni dell'Islam

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Unveiled: New Art from the Middle East — la mostra (fino al 9 maggio) alla Saatchi Gallery di Londra

(Dall'alto in basso: Shadi Ghadirian, Kader Attia, Halim Karim, Ahmed Alsoudani, Ahmad Morshedloo)

venerdì

Breve lettera dal deserto

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(Immagine: Measant)


Il vento ha portato un fantasma salmastro. Ti ho riconosciuto in quel gusto pungente.

Le crepe che hanno fatto strada al fuoco. L’ardore che provoca e calma. La torcia che palpita tra fiamme brusche.
Tutto ti tradisce.

Il deserto prosegue invivibile. Gli sciacalli ululano alla tua magia di sabbia. I miraggi invidiano l’autenticità della tua bellezza.

Mi metto in cammino. Cerco una zona di pini, di menta, di acqua.
Lotto per scoprirti in un pugno di terra fertile.


Gilda Manso,
Breve carta desde el desierto


La poesia al di là dei versi della scrittrice e giornalista argentina Gilda Manso (testo tradotto dal suo blog El arcángel mirón)