giovedì

Il Circolo di Praga

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All’epoca in cui studiavo, tutti i miei professori erano certi strutturalisti che lèvati. Questo diceva Policarpo. Policarpo ancora manteneva eretta la struttura ossea del cervello, ovverossia il corpo. Si studi la sostanza dell’espressione invece di attaccarsi alla forma del contenuto, saputone! Questo diceva Policarpo che gli diceva Polifemo quando lui tentava di parlare con eccessivo entusiasmo delle differenze fra il sostrato e la forma. Si studi Louis Hjelmslev, il Circolo di Copenhagen, il Circolo di Praga e i formalisti russi, animale! Questo diceva Policarpo che diceva il Polifemo rognoso, senza alcun giro di parole. A lui sembrava più un ippogrifo che un Polifemo.

Nessuno sapeva con certezza come si pronunciasse il nome di quel tal «Hjelmslev», cosicché a volte sembrava trattarsi d’una persona sola, altre volte di una moltitudine: «Yiemsliu», dicevano alcuni; «Hemsleh», aspirando l’acca, dicevano altri; «Hemsleff», dicevano i filosovietici dichiarati; «Liemsliu» i filocinesi… E sempre «circolo» di questo qua, «circolo» di quell’altro là. Circoli dappertutto. Questo diceva Policarpo. Oltre che strutturalista danese, il Polifemo era «cheista». Nel senso che incappava sistematicamente nella «cheùzie». Le sue frasi non finivano mai, solo subordinate e subordinate, e ognuna di quelle cominciava con un «che» impossibile, insopportabile, snervante. Questo diceva Policarpo.

Secondo Policarpo, Polifemo era più criptofascista che strutturalista, ma com’era furbo, capì che l’avevano scoperto e così in certi giorni si comportava da criptomarxista. I giorni nei quali il Polifemo si comportava da criptomarxista, veniva in classe senza cravatta. Questo diceva Policarpo. I giorni nei quali veniva in classe senza cravatta si parlava unicamente del contesto. Lasciava da parte la glossematica e si immergeva in un mare burrascoso di determinazioni socio-contestuali, politico-contestuali ed economico-contestuali. La letteratura cessava di essere lo stupore degli dèi o una di quelle «strutture» ossessive, e si convertiva in una «superstruttura», in una forma di «cosificazione o reificazione», in un bullone di uno degli «ingranaggi ideologici di Stato». Gli studenti erano obbligati a recitare la parte di quelli esaltati dal contesto, e dovevano comprenderlo da capo a fondo in maniera dialettica. Non si poteva parlare d’altro se non di un tal Lukács e dell’estetica di un altro che si chiamava Galvano della Volpe. Allucinante. Questo diceva Policarpo.

La cosa peggiore di tutte fu quando il Polifemo iniziò a fissarsi sulle questioni di tipo etnico e sul nazionalismo, diciamo così, identitario. A partire da allora ogni cosa, in classe, doveva esser messa in relazione con la tradizione orale e con l’invenzione della tradizione. Questo diceva Policarpo. Per provare le sue tesi, il Polifemo attraversò l’Atlantico e se ne andò a cercare le radici dei suoi antenati, fondatori di Cabaiguán, nella provincia di Santi Espíritus. A partire da allora si convertì definitivamente al credo etnometodologico della Scuola di Chicago. Da Cabaiguán se ne venne via con una morona che restavi a bocca aperta, e si scordò di sua moglie e dei figli, di Hjelmslev e del Circolo di Praga. Questo è ciò che diceva Policarpo, che ancora mantiene eretta la struttura ossea del cervello, ovverossia il corpo.

Juan Yanes, El Círculo de Praga

Un racconto "destrutturante" tradotto dal blog (molto ben strutturato) Máquina de coser palabras

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