venerdì
«Nessuno nelle camere a gas»
«Io credo che le camere a gas non siano mai esistite (...) penso che dai 200mila ai 300mila ebrei siano morti nei campi di concentramento, ma nessuno nelle camere a gas.»
Dalle parole di Richard Williamson, uno dei quattro vescovi lefebvriani perdonati da Benedetto XVI, alla tv pubblica svedese
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giovedì
Dedalo
(Immagine: xportebois)
Siamo tempo, niente dura e vivere è un continuo separarsi.
Octavio Paz
Il mare continua a colpire la riva graffiata, divora la roccia, trascina via il suo sale, disfa tutti i suoi gradini. Il profilo del paesaggio muta lentamente. Già essiccata la tristezza, l’uomo vede come si attenuano i contorni, come si scuriscono, si combinano con il cielo nero. Ancora un giorno sul punto di cadergli sulle spalle, lunghe ore di colpa che gli precipitano addosso il loro peso di lapide. A che serve esser scampato alla prigione?, si domanda. Mesi, anni di pietra, come i muri immani del suo labirinto. Lui, l’inventore del cuneo, dell’ascia e delle vele delle navi, non sa in che modo riottenere il tempo, per suo figlio, coprire il sole, essere di nuovo uccello. Inutile, si afferra al polso inerme, cerca un battito, il calore lieve della carne che è un ricordo del suo braccio. Gli sanguina sabbia annerita dalle nocche. Tra le dita scivolano via i frammenti di un paio di ali rotte, quelle che lui costruì, quelle che portarono Icaro su in alto, fino al sole, e poi sciolsero il suo sogno di volare. E lui, lì, solo, una statua su quel lido senza luci, abbandonato, avverte sotto la sua mano il corpo di suo figlio che si cambia in polvere.
Mónica Sánchez Escuer, Dédalo
Il lirismo duro e palpitante della messicana Mónica Sánchez Escuer (tradotto dal suo blog Historias baldías)
Siamo tempo, niente dura e vivere è un continuo separarsi.
Octavio Paz
Il mare continua a colpire la riva graffiata, divora la roccia, trascina via il suo sale, disfa tutti i suoi gradini. Il profilo del paesaggio muta lentamente. Già essiccata la tristezza, l’uomo vede come si attenuano i contorni, come si scuriscono, si combinano con il cielo nero. Ancora un giorno sul punto di cadergli sulle spalle, lunghe ore di colpa che gli precipitano addosso il loro peso di lapide. A che serve esser scampato alla prigione?, si domanda. Mesi, anni di pietra, come i muri immani del suo labirinto. Lui, l’inventore del cuneo, dell’ascia e delle vele delle navi, non sa in che modo riottenere il tempo, per suo figlio, coprire il sole, essere di nuovo uccello. Inutile, si afferra al polso inerme, cerca un battito, il calore lieve della carne che è un ricordo del suo braccio. Gli sanguina sabbia annerita dalle nocche. Tra le dita scivolano via i frammenti di un paio di ali rotte, quelle che lui costruì, quelle che portarono Icaro su in alto, fino al sole, e poi sciolsero il suo sogno di volare. E lui, lì, solo, una statua su quel lido senza luci, abbandonato, avverte sotto la sua mano il corpo di suo figlio che si cambia in polvere.
Mónica Sánchez Escuer, Dédalo
Il lirismo duro e palpitante della messicana Mónica Sánchez Escuer (tradotto dal suo blog Historias baldías)
mercoledì
Tears In Heaven
Would you know my name
If I saw you in heaven?
Would you feel the same
If I saw you in heaven?
I must be strong and carry on
Cause I know I don't belong here in heaven...
Would you hold my hand
If I saw you in heaven?
Would you help me stand
If I saw you in heaven?
I’ll find my way through night and day
Cause I know I just can't stay here in heaven...
Time can bring you down, time can bend your knees
Time can break your heart, have you begging please... begging please
Beyond the door there's peace I’m sure
And I know there’ll be no more tears in heaven...
Would you know my name
If I saw you in heaven?
Would you feel the same
If I saw you in heaven?
I must be strong and carry on
Cause I know I don't belong here in heaven...
Eric Clapton, Tears In Heaven, 1991
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martedì
lunedì
La rivoluzione di un padre
(Beppino Englaro mostra una foto della figlia Eluana)
«... Immagino che Beppino Englaro, guardando la sua Eluana, sappia che il dolore di sua figlia è il dolore di ogni singolo individuo che lotta per l'affermazione dei propri diritti. Se avesse agito in silenzio, trovando scorciatoie a lui sarebbe rimasto forse solo il suo dolore. Rivolgendosi al diritto, combattendo all'interno delle istituzioni e con le istituzioni, chiedendo che la sentenza della Suprema Corte sia rispettata, ha fatto sì, invece, che il dolore per una figlia in coma da 17 anni, smettesse di essere un dolore privato e diventasse anche il mio, il nostro, dolore. Ha fatto riscoprire una delle meraviglie dimenticate del principio democratico, l'empatia. Quando il dolore di uno è il dolore di tutti. E così il diritto di uno diviene il diritto di tutti...»
Roberto Saviano, La rivoluzione di un padre (da Repubblica.it del 23 gennaio 2009): leggi tutto
«... Immagino che Beppino Englaro, guardando la sua Eluana, sappia che il dolore di sua figlia è il dolore di ogni singolo individuo che lotta per l'affermazione dei propri diritti. Se avesse agito in silenzio, trovando scorciatoie a lui sarebbe rimasto forse solo il suo dolore. Rivolgendosi al diritto, combattendo all'interno delle istituzioni e con le istituzioni, chiedendo che la sentenza della Suprema Corte sia rispettata, ha fatto sì, invece, che il dolore per una figlia in coma da 17 anni, smettesse di essere un dolore privato e diventasse anche il mio, il nostro, dolore. Ha fatto riscoprire una delle meraviglie dimenticate del principio democratico, l'empatia. Quando il dolore di uno è il dolore di tutti. E così il diritto di uno diviene il diritto di tutti...»
Roberto Saviano, La rivoluzione di un padre (da Repubblica.it del 23 gennaio 2009): leggi tutto
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giovedì
L'uscita dall'arca ovvero Il disinganno
Attraverso la fessura del fasciame la luce a pelo dell’acqua apparve fosca, vischiosa, una poltiglia così densa da potersi toccare, se non si fosse sparpagliata e franta solo a tentarla con l’occhio. Luce... ma che luce è mai una luce che non è di sole né di luna, ma è solo una verdeoliva oleosa evanescenza, un ondoso olio d’aria rappreso attorno allo scafo? Veniva voglia di batterla con un remo, di pungerla con un arpione: una cosa nemica, fra le tante nuvole che sorgevano dai gorghi e vi esitavano sopra a galleggiare, prima scomparse che apparse: tronchi bruni d’alberi, flotte di gonfi annegati, brandelli di nuvola nera prigionieri fra due creste, minacciose fate morgane...
Noè era stanco di sbarrare giorno e notte le pupille fra l’uno e l’altro sguancio della feritoia come da un secondo astuccio di palpebre; stanco di dover fissare sempre lo stesso riquadro di cataclisma dalla sua seggiola di sentinella, mai lasciandosi distrarre dal pandemonio di voci animali e umane che gli tuonava dietro
le spalle...
Non aveva voluto saperne sin dal principio, di mischiarsi con l’immane ciurma, nemmeno coi più intimi ch’erano carne e sangue suoi; meno che mai con le nature più estranee. Mangiassero, copulassero, dormissero pure a piacere, giù nella pancia dell’arca... Lui s’era accucciato in una gabbia da gabbiere, con solamente una ciotola accanto, dove silenziosamente al mattino la sua donna sarebbe venuta a deporre la razione del mangiare e del bere. Qui s’era alloggiato e vegliava, incidendo con un ferruzzo una tacca nel legno, per ogni giorno di diluvio che la Voce aveva annunziato. Ora alla fine di quella notte le tacche sarebbero state centocinquanta.
Noè era stanco di sbarrare giorno e notte le pupille fra l’uno e l’altro sguancio della feritoia come da un secondo astuccio di palpebre; stanco di dover fissare sempre lo stesso riquadro di cataclisma dalla sua seggiola di sentinella, mai lasciandosi distrarre dal pandemonio di voci animali e umane che gli tuonava dietro
le spalle...
Non aveva voluto saperne sin dal principio, di mischiarsi con l’immane ciurma, nemmeno coi più intimi ch’erano carne e sangue suoi; meno che mai con le nature più estranee. Mangiassero, copulassero, dormissero pure a piacere, giù nella pancia dell’arca... Lui s’era accucciato in una gabbia da gabbiere, con solamente una ciotola accanto, dove silenziosamente al mattino la sua donna sarebbe venuta a deporre la razione del mangiare e del bere. Qui s’era alloggiato e vegliava, incidendo con un ferruzzo una tacca nel legno, per ogni giorno di diluvio che la Voce aveva annunziato. Ora alla fine di quella notte le tacche sarebbero state centocinquanta.
Quantunque non ci fosse modo in quel frangente di pilotarla, l’imbarcazione era a regola d’arte e Noè se ne sentiva umilmente orgoglioso. Così agile come robusta, calafatata dentro e di fuori, lunga trecento cubiti, larga cinquanta, alta trenta... E mandava, sferzata dall’uragano, un aroma di resina così pungente da convincere il cuore a durare. Gli bastava, a Noè, quando più fosse cupa l’aria, e più fischiassero i venti, e più sembrasse approssimarsi la fine, sdraiarsi sul fondo della chiglia, dove appena un breve spessore resisteva fra la sua carne e l’abisso, gli bastava respirare a piene narici quell’odore di legno, ch’era odore di bosco e d’altura, e di vita ancora viva, domestica e innocente, per esilararsene il cuore. Una casa era l’arca, e sorvolava il fiume di tenebre, irrisoria e inaffondabile come una piuma d’uccello.
Più che una piuma, in verità, ai suoi occhi di capitano. Piuttosto, uno sprone di monte natante, una fortezza a più piani, con un tetto di travi in croce, e una porta sigillata di doppia pece. L’arca! L’uomo quasi l’amava dopo tanti giorni. E per farsene meglio padrone, s’era costruita una scala di corda, con cui arrampicarsi da un piano all’altro, svelto a onta degli anni, ch’erano innumerevoli, e sempre in moto, su e giù, qui a osservare da uno spiraglio l’onda, come ruggiva e si muoveva torbida e ostile, lì, dalla specola più alta, legato a un palo, se mai gli giungesse dall’orizzonte un indizio di remissione. Senza mai scorgere, a vista d’occhio, che un incombere e franare di cataratte di piombo, muraglie cieche che solo all’ultimo momento s’aprivano davanti al guscio di pino, salvo a riagguantarlo subito e giocare a rilanciarselo, mentre lui nella sua gabbia vegliava, oscuramente pago di abitare entro la liquida furia, come un tempo, prima di sgusciarne per vivere, nel lago del grembo materno.
Ora fra l’uomo e quel corpo d’acqua, quella bestia sterminata, da centocinquanta giorni una fatidica sfida vigeva. Non anche una pace, domani? Lui non sapeva cosa rispondersi, sebbene ogni tanto, meno per offa che per disprezzo, rapisse da bordo una provvista qualunque da lanciare in bocca al nemico, godendo di vederla un istante ballare in tondo sul vortice, prima di sprofondare e sparire...
Tese l’orecchio, un tumulto di voci giungeva da un luogo invisibile, alle sue spalle. I tre figli stavano certo giocando ai soliti dadi, davanti alla solita platea delle mogli. Mentre il resto dell’equipaggio giaceva, le bestie impure e le pure, ciascuna coppia stivata nel suo spicchio di cella, sepolta in un’ottusa ignavia di succubi. Meglio così. Avrebbe saputo badare da solo alla poca manovra possibile, come in tutti questi mesi aveva fatto, numerando i giorni e le notti, in assenza d’astri, secondo le vicende del vegliare e dormire, a cui fortunatamente le sue membra obbedivano ancora.
Reliquia dell’esistere, malleveria del riesistere, questa fedeltà delle membra alla veneranda tregua del sonno... Non senza sogni: sogni di quiete presso una siepe, e una musica li guidava. Sogni di terra, di stagioni e stelle, come può ricordarsele un morto. Della terra com’era stata una volta, con spighe e grappoli e brezze e scioltezza d’acque correnti che un barbaglio di sole d’improvviso ferisce. Sogni ch’erano lucine accese, lucine di lucciola accese nel buio di una sola memoria terrena, sopra una tremula tavola, in balia di un oceano; di una sola memoria pulsante in un globo deserto, in corsa attraverso i campi del silenzio eterno da cui la prima volta la Voce era giunta alle sue orecchie…
L’uomo cercò nel cielo un punto che sapeva lui solo, ma sulla sua testa non scorse che una caverna di buio, un crepaccio d’occhio piangente, donde il diluvio sembrava cascare a dirotto, come una piena di lacrime senza sponde. Era Lui, Jahvè, in persona, che piangeva così dall’unico occhio crepato, e il Suo pianto erano il nembo e la notte, il precipizio e la morte. Si sarebbero mai placati, quella collera e quel dolore? Sarebbe mai tornata a parlare la Voce? La stessa che Noè aveva creduto d’udire un mattino, inaudibile agli altri, e vi aveva inteso un giuramento, un’alleanza, un amore… La salvezza, la resurrezione, la vita...
Per la centocinquantesima volta tornò a tuffare lo scandaglio nell’acqua, benché sapesse ch’era vano pretendere di misurarne il livello. Sceglieva per la bisogna le rare pause fra due meteore, quando all’intemperie più clamorosa subentrava la povertà della pioggia, quella diaccia, livida, immutabile caduta... Allora, se per avventura la nave era tornata a rollare nei paraggi di taluna alpe sommersa, di cui attraverso i flutti s’intravvedessero i picchi, e la cui petrosa barriera avesse nei primi tempi consentito un rifugio al di qua della cintura delle lagune, se dunque la nave era per sfiorare a perpendicolo un fondale accessibile a un’àncora palombara, il vecchio gettava il suo amo al profondo, incurante di mettere a repentaglio la chiglia contro una punta nascosta. Come stavolta, che intese una commessura stridere sotto i suoi piedi e da una doga sdrucita scorse trapelare e serpignamente invadere il pavimento una lingua di mare scuro. Né si sbigottì, l’uomo, ma fu quasi contento. Poiché quell’intoppo voleva dire che il solido della crosta non era lontano, che una scheggia di suolo terreno aveva toccato, sia pure per ferirli, i suoi figli…
Era il suo primo riconciliarsi con la terraferma, da quando aveva visto dall’arca gli estremi fastigi d’una città colare a picco, inceneriti dal fulmine, friggendo come ferri di forgia immersi dentro un bacile. Fu quasi contento, dunque, e si strappò di dosso le vesti, ne fece una zeppa con cui tappare la fenditura, la rappezzò con mani sapienti. Quindi salì sul tetto e gridò tre volte all’acqua il suo nome.
Centocinquantunesimo giorno. Noè si levò di buonora. Pioveva ancora ma rado. Il cielo era sempre nero, ma d’un nero che vuol pentirsi. Anche l’oceano pareva volesse mutare pelle, trascolorava a ogni colpo di vento, ed erano raffiche rase, di irruenta e generosa natura, gagliardi sospiri e respiri di Dio. Parve al patriarca di udire in quel vento parole, né capiva cosa dicessero, senonché, esponendo le palme fuori della gabbia, le ritirò non meno asciutte di prima, se le passò asciutte sul viso.
Non volle chiamare i figli, non disse nulla alla moglie, bensì s’accucciò nella sua botola a ripensare un pensiero che già prima gli aveva riempito la mente senza che si capisse se era di esultanza o di terrore, un informe pensiero dentro il quale s’addormentò. Quando rinvenne e fu salito sul tetto dell’arca, già nel breve intervallo minuscole eminenze avevano fatto tanto di venire alla luce, si vedevano grondanti risorgere dall’universale naufragio. Ecco qui due argini crescono a inalveare un canale, laggiù si dirama un delta, altrove s’arriccia una sirte. La nave stessa, pur così catramosa e negra, somiglia a una cicogna che nuoti da riva a riva e si festeggi con l’ali.
Allora, come s’affloscia un padiglione o una vela, il tetto di nubi si ripiegò su se stesso, frecce di luce lo ruppero, un arco immenso di sette colori s’incurvò d’improvviso nel cielo. E un sole paonazzo, rotondo, furiosamente felice, sfolgorò sulla terra come su un infinito scudo di rame. L’uomo con un fischio chiamò la colomba sulla sua spalla e da qui con un bisbiglio la mandò verso le cose.
Più che una piuma, in verità, ai suoi occhi di capitano. Piuttosto, uno sprone di monte natante, una fortezza a più piani, con un tetto di travi in croce, e una porta sigillata di doppia pece. L’arca! L’uomo quasi l’amava dopo tanti giorni. E per farsene meglio padrone, s’era costruita una scala di corda, con cui arrampicarsi da un piano all’altro, svelto a onta degli anni, ch’erano innumerevoli, e sempre in moto, su e giù, qui a osservare da uno spiraglio l’onda, come ruggiva e si muoveva torbida e ostile, lì, dalla specola più alta, legato a un palo, se mai gli giungesse dall’orizzonte un indizio di remissione. Senza mai scorgere, a vista d’occhio, che un incombere e franare di cataratte di piombo, muraglie cieche che solo all’ultimo momento s’aprivano davanti al guscio di pino, salvo a riagguantarlo subito e giocare a rilanciarselo, mentre lui nella sua gabbia vegliava, oscuramente pago di abitare entro la liquida furia, come un tempo, prima di sgusciarne per vivere, nel lago del grembo materno.
Ora fra l’uomo e quel corpo d’acqua, quella bestia sterminata, da centocinquanta giorni una fatidica sfida vigeva. Non anche una pace, domani? Lui non sapeva cosa rispondersi, sebbene ogni tanto, meno per offa che per disprezzo, rapisse da bordo una provvista qualunque da lanciare in bocca al nemico, godendo di vederla un istante ballare in tondo sul vortice, prima di sprofondare e sparire...
Tese l’orecchio, un tumulto di voci giungeva da un luogo invisibile, alle sue spalle. I tre figli stavano certo giocando ai soliti dadi, davanti alla solita platea delle mogli. Mentre il resto dell’equipaggio giaceva, le bestie impure e le pure, ciascuna coppia stivata nel suo spicchio di cella, sepolta in un’ottusa ignavia di succubi. Meglio così. Avrebbe saputo badare da solo alla poca manovra possibile, come in tutti questi mesi aveva fatto, numerando i giorni e le notti, in assenza d’astri, secondo le vicende del vegliare e dormire, a cui fortunatamente le sue membra obbedivano ancora.
Reliquia dell’esistere, malleveria del riesistere, questa fedeltà delle membra alla veneranda tregua del sonno... Non senza sogni: sogni di quiete presso una siepe, e una musica li guidava. Sogni di terra, di stagioni e stelle, come può ricordarsele un morto. Della terra com’era stata una volta, con spighe e grappoli e brezze e scioltezza d’acque correnti che un barbaglio di sole d’improvviso ferisce. Sogni ch’erano lucine accese, lucine di lucciola accese nel buio di una sola memoria terrena, sopra una tremula tavola, in balia di un oceano; di una sola memoria pulsante in un globo deserto, in corsa attraverso i campi del silenzio eterno da cui la prima volta la Voce era giunta alle sue orecchie…
L’uomo cercò nel cielo un punto che sapeva lui solo, ma sulla sua testa non scorse che una caverna di buio, un crepaccio d’occhio piangente, donde il diluvio sembrava cascare a dirotto, come una piena di lacrime senza sponde. Era Lui, Jahvè, in persona, che piangeva così dall’unico occhio crepato, e il Suo pianto erano il nembo e la notte, il precipizio e la morte. Si sarebbero mai placati, quella collera e quel dolore? Sarebbe mai tornata a parlare la Voce? La stessa che Noè aveva creduto d’udire un mattino, inaudibile agli altri, e vi aveva inteso un giuramento, un’alleanza, un amore… La salvezza, la resurrezione, la vita...
Per la centocinquantesima volta tornò a tuffare lo scandaglio nell’acqua, benché sapesse ch’era vano pretendere di misurarne il livello. Sceglieva per la bisogna le rare pause fra due meteore, quando all’intemperie più clamorosa subentrava la povertà della pioggia, quella diaccia, livida, immutabile caduta... Allora, se per avventura la nave era tornata a rollare nei paraggi di taluna alpe sommersa, di cui attraverso i flutti s’intravvedessero i picchi, e la cui petrosa barriera avesse nei primi tempi consentito un rifugio al di qua della cintura delle lagune, se dunque la nave era per sfiorare a perpendicolo un fondale accessibile a un’àncora palombara, il vecchio gettava il suo amo al profondo, incurante di mettere a repentaglio la chiglia contro una punta nascosta. Come stavolta, che intese una commessura stridere sotto i suoi piedi e da una doga sdrucita scorse trapelare e serpignamente invadere il pavimento una lingua di mare scuro. Né si sbigottì, l’uomo, ma fu quasi contento. Poiché quell’intoppo voleva dire che il solido della crosta non era lontano, che una scheggia di suolo terreno aveva toccato, sia pure per ferirli, i suoi figli…
Era il suo primo riconciliarsi con la terraferma, da quando aveva visto dall’arca gli estremi fastigi d’una città colare a picco, inceneriti dal fulmine, friggendo come ferri di forgia immersi dentro un bacile. Fu quasi contento, dunque, e si strappò di dosso le vesti, ne fece una zeppa con cui tappare la fenditura, la rappezzò con mani sapienti. Quindi salì sul tetto e gridò tre volte all’acqua il suo nome.
Centocinquantunesimo giorno. Noè si levò di buonora. Pioveva ancora ma rado. Il cielo era sempre nero, ma d’un nero che vuol pentirsi. Anche l’oceano pareva volesse mutare pelle, trascolorava a ogni colpo di vento, ed erano raffiche rase, di irruenta e generosa natura, gagliardi sospiri e respiri di Dio. Parve al patriarca di udire in quel vento parole, né capiva cosa dicessero, senonché, esponendo le palme fuori della gabbia, le ritirò non meno asciutte di prima, se le passò asciutte sul viso.
Non volle chiamare i figli, non disse nulla alla moglie, bensì s’accucciò nella sua botola a ripensare un pensiero che già prima gli aveva riempito la mente senza che si capisse se era di esultanza o di terrore, un informe pensiero dentro il quale s’addormentò. Quando rinvenne e fu salito sul tetto dell’arca, già nel breve intervallo minuscole eminenze avevano fatto tanto di venire alla luce, si vedevano grondanti risorgere dall’universale naufragio. Ecco qui due argini crescono a inalveare un canale, laggiù si dirama un delta, altrove s’arriccia una sirte. La nave stessa, pur così catramosa e negra, somiglia a una cicogna che nuoti da riva a riva e si festeggi con l’ali.
Allora, come s’affloscia un padiglione o una vela, il tetto di nubi si ripiegò su se stesso, frecce di luce lo ruppero, un arco immenso di sette colori s’incurvò d’improvviso nel cielo. E un sole paonazzo, rotondo, furiosamente felice, sfolgorò sulla terra come su un infinito scudo di rame. L’uomo con un fischio chiamò la colomba sulla sua spalla e da qui con un bisbiglio la mandò verso le cose.
Un mattino Noè decise di venir fuori. La colomba era tornata e ripartita, tornata ancora e ripartita ancora. Ormai lui non s’aspettava più che tornasse e il cuore gliene era radioso. Uscì col ramoscello d’ulivo in mano, cautamente toccò col piede scalzo la coltre di fango giallo dove la nave s’era chetata.
I primi passi furono d’ubriaco. Eppure s’avviò coraggioso, affondando fino al ginocchio, su per un crinale che prometteva un belvedere, lassù. Passo passo guadagnò la cima, da una balconata di roccia s’affacciò finalmente, avido di battezzare e amare con gli occhi la vergine terra. E la vide e la amò: sudicia di ruggini e muffe, fumosa di vulcani, pezzata da mille pozzanghere ma rutilante, oh quanto rutilante, di festa e di gioventù!
Quando ridiscese, lo attrasse un rimasuglio triangolare d’acqua in una cavità della pietra. Non gli dispiacque la faccia che vi specchiò, cotta dal sale e dal vento, arata da mille spaventi. Una faccia ch’era maestosa d’anni, ma, insieme, acerba e attonita, tale e quale la terra, e altrettanto corrusca di un sotterraneo sorriso. Il quale divenne riso spiegato, udendo il subbuglio davanti all’uscio dell’arca, donde, senza più legge, le famiglie pedestri, volatili e rettili sciamavano fuori, correndo, strisciando, volando a grotte, nidi, covili. I suoi stessi figli, Sem, Cam e Jafet, vide andarsene, ciascuno per la sua strada. Solo la donna taceva, in piedi accanto a lui, e lui le carezzò con la mano i capelli.
“Guarda”, le disse e mostrò col gesto la terra, gli arcipelaghi, i golfi, il cristallo dell’aria, le peripezie delle valli e dei fiumi, il teatro degli orizzonti. Un tanfo di putredine dolciastra se ne levava tuttora, ma nel limo già misteriosi semi fiorivano, diamanti di stille pendevano dalle fronde, radici si tendevano a berle, occhi di creature scintillavano freschi nell’erba.
Il vecchio volse il capo al cielo, aspettando. Il cielo era azzurrissimo e vuoto, dove un arcobaleno ironico impallidiva. Poi una colomba apparve lassù, la sua colomba, e sembrava sbandare con ali goffe, sbalordita dal sole. Noè non s’avvide del falco, sentì solo un frullo, uno strido e piombargli un’ombra bianca fra i piedi, spruzzargli le gambe col sangue della sua gola squarciata.
Ma come? Noè aguzzò occhi e orecchi sospettosi sul mondo. Stupefatto e sospettoso spiava il mondo redento. E udì le voci irose dei figli, vide su un sasso chiudersi un pugno, un ragno tessere fra due steli una tela e una mosca ronzarvi accanto. Un lupo urlò dietro un agnello, una vipera morse un calcagno... Ma come? L’uomo chiese con gli occhi alla donna e la donna gli rispose con gli occhi. Una lacrima scorse a Noè lungo la gota, si mischiò col pelame del mento. Lui la pulì col rovescio della mano, curvò le spalle, s’incamminò.
“Ma come?” si domandava.
Gesualdo Bufalino (1920-1996), L’uscita dall’arca ovvero Il disinganno (tratto da L’uomo invaso e altre invenzioni, Bompiani 1986)
(foto: sMASHsHELL)
I primi passi furono d’ubriaco. Eppure s’avviò coraggioso, affondando fino al ginocchio, su per un crinale che prometteva un belvedere, lassù. Passo passo guadagnò la cima, da una balconata di roccia s’affacciò finalmente, avido di battezzare e amare con gli occhi la vergine terra. E la vide e la amò: sudicia di ruggini e muffe, fumosa di vulcani, pezzata da mille pozzanghere ma rutilante, oh quanto rutilante, di festa e di gioventù!
Quando ridiscese, lo attrasse un rimasuglio triangolare d’acqua in una cavità della pietra. Non gli dispiacque la faccia che vi specchiò, cotta dal sale e dal vento, arata da mille spaventi. Una faccia ch’era maestosa d’anni, ma, insieme, acerba e attonita, tale e quale la terra, e altrettanto corrusca di un sotterraneo sorriso. Il quale divenne riso spiegato, udendo il subbuglio davanti all’uscio dell’arca, donde, senza più legge, le famiglie pedestri, volatili e rettili sciamavano fuori, correndo, strisciando, volando a grotte, nidi, covili. I suoi stessi figli, Sem, Cam e Jafet, vide andarsene, ciascuno per la sua strada. Solo la donna taceva, in piedi accanto a lui, e lui le carezzò con la mano i capelli.
“Guarda”, le disse e mostrò col gesto la terra, gli arcipelaghi, i golfi, il cristallo dell’aria, le peripezie delle valli e dei fiumi, il teatro degli orizzonti. Un tanfo di putredine dolciastra se ne levava tuttora, ma nel limo già misteriosi semi fiorivano, diamanti di stille pendevano dalle fronde, radici si tendevano a berle, occhi di creature scintillavano freschi nell’erba.
Il vecchio volse il capo al cielo, aspettando. Il cielo era azzurrissimo e vuoto, dove un arcobaleno ironico impallidiva. Poi una colomba apparve lassù, la sua colomba, e sembrava sbandare con ali goffe, sbalordita dal sole. Noè non s’avvide del falco, sentì solo un frullo, uno strido e piombargli un’ombra bianca fra i piedi, spruzzargli le gambe col sangue della sua gola squarciata.
Ma come? Noè aguzzò occhi e orecchi sospettosi sul mondo. Stupefatto e sospettoso spiava il mondo redento. E udì le voci irose dei figli, vide su un sasso chiudersi un pugno, un ragno tessere fra due steli una tela e una mosca ronzarvi accanto. Un lupo urlò dietro un agnello, una vipera morse un calcagno... Ma come? L’uomo chiese con gli occhi alla donna e la donna gli rispose con gli occhi. Una lacrima scorse a Noè lungo la gota, si mischiò col pelame del mento. Lui la pulì col rovescio della mano, curvò le spalle, s’incamminò.
“Ma come?” si domandava.
Gesualdo Bufalino (1920-1996), L’uscita dall’arca ovvero Il disinganno (tratto da L’uomo invaso e altre invenzioni, Bompiani 1986)
(foto: sMASHsHELL)
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Racconto
martedì
Sodade
Quem mostra b’ess caminho longe?
Quem mostra b’ess caminho longe?
Ess caminho pa Sâo Tomé
Quem mostra b’ess caminho longe?
Quem mostra b’ess caminho longe?
Ess caminho pa Sâo Tomé
Sodade sodade sodade dess nha terra São Nicolau
Sodade sodade sodade dess nha terra São Nicolau
Si bô screvê me m’ ta screvê be
Si bô squecê me m’ ta squecê be
Até dia qui bô voltá
Si bô screvê me m’ ta screvê be
Si bô squecê me m’ ta squecê be
Até dia qui bô voltá
Sodade sodade sodade dess nha terra São Nicolau
Sodade sodade sodade dess nha terra São Nicolau
Sodade sodade sodade dess nha terra São Nicolau
Sodade sodade sodade dess nha terra São Nicolau
Cesária Évora, Sodade, 1992
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lunedì
Tutta una vita
(Foto tratta da Nytimes.com)
Venne alla luce alle 6 e 15 del mattino.
Non ci fu il tempo per dargli i consueti schiaffetti di benvenuto.
Il proiettile dell’obice israeliano si incaricò di mozzargli il cordone ombelicale esattamente alle 6 e 16 del mattino.
Saturnino Rodríguez Riverón, Toda una vida
(tradotto dal blog Máquina de coser palabras)
Saturnino Rodríguez Riverón su Narcolessia delle giraffe
venerdì
A Jew's Prayer for the Children of Gaza
If there has ever been a time for prayer, this is that time.
If there has ever been a place forsaken, Gaza is that place.
Lord who is the creator of all children, hear our prayer this accursed day. God whom we call Blessed, turn your face to these, the children of Gaza, that they may know your blessings, and your shelter, that they may know light and warmth, where there is now only blackness and smoke, and a cold which cuts and clenches the skin.
Almighty who makes exceptions, which we call miracles, make an exception of the children of Gaza. Shield them from us and from their own. Spare them. Heal them. Let them stand in safety. Deliver them from hunger and horror and fury and grief. Deliver them from us, and from their own.
Restore to them their stolen childhoods, their birthright, which is a taste of heaven.
Remind us, O Lord, of the child Ishmael, who is the father of all the children of Gaza. How the child Ishmael was without water and left for dead in the wilderness of Beer-Sheba, so robbed of all hope, that his own mother could not bear to watch his life drain away.
Be that Lord, the God of our kinsman Ishmael, who heard his cry and sent His angel to comfort his mother Hagar.
Be that Lord, who was with Ishmael that day, and all the days after. Be that God, the All-Merciful, who opened Hagar's eyes that day, and showed her the well of water, that she could give the boy Ishmael to drink, and save his life.
Allah, whose name we call Elohim, who gives life, who knows the value and the fragility of every life, send these children your angels. Save them, the children of this place, Gaza the most beautiful, and Gaza the damned.
In this day, when the trepidation and rage and mourning that is called war, seizes our hearts and patches them in scars, we call to you, the Lord whose name is Peace:
Bless these children, and keep them from harm.
Turn Your face toward them, O Lord. Show them, as if for the first time, light and kindness, and overwhelming graciousness.
Look up at them, O Lord. Let them see your face.
And, as if for the first time, grant them peace.
Bradley Burston (da Haaretz.com)
giovedì
mercoledì
Dialogo tra Asmodeo e il russo Salzman
(Foto: Urbain Calestroupat)
Asmodeo: Sono Asmodeo, ispiratore di giocatori e signore di tutte le fiches del mondo. Conosco a memoria tutte le mani che sono state distribuite nella storia dei mazzi di carte. Conosco pure quelle che verranno date in futuro. I dadi e la roulette mi obbediscono. La mia faccia è su tutte le figure. E posseggo la cifra segreta e fatale che dovrai sommare agli altri tuoi lanci quando arriverai alla fine della tua esistenza.
Salzman: Non ti va di giocare a ramino?
Asmodeo: No, Salzman, sono venuto a offrirti il trionfo perpetuo. Solo con l’adorarmi, vincerai sempre, a qualsiasi gioco.
Salzman: Non lo so mica se voglio vincere.
Asmodeo: Imbecille! Forse vuoi perdere?
Salzman: No, non voglio nemmeno perdere.
Asmodeo: E che vuoi allora?
Salzman: Giocare. Voglio giocare, maestro… Facciamoci un ramino.
Alejandro Dolina, Diálogo entre Asmodeo y el Ruso Salzman (da Crónicas del Ángel Gris, 1987)
(È stata l'amica Gilda Manso, giornalista e scrittrice porteña, a diffondere questo testo di Alejandro Dolina e a spingere le giraffe a tradurlo)
Asmodeo: Sono Asmodeo, ispiratore di giocatori e signore di tutte le fiches del mondo. Conosco a memoria tutte le mani che sono state distribuite nella storia dei mazzi di carte. Conosco pure quelle che verranno date in futuro. I dadi e la roulette mi obbediscono. La mia faccia è su tutte le figure. E posseggo la cifra segreta e fatale che dovrai sommare agli altri tuoi lanci quando arriverai alla fine della tua esistenza.
Salzman: Non ti va di giocare a ramino?
Asmodeo: No, Salzman, sono venuto a offrirti il trionfo perpetuo. Solo con l’adorarmi, vincerai sempre, a qualsiasi gioco.
Salzman: Non lo so mica se voglio vincere.
Asmodeo: Imbecille! Forse vuoi perdere?
Salzman: No, non voglio nemmeno perdere.
Asmodeo: E che vuoi allora?
Salzman: Giocare. Voglio giocare, maestro… Facciamoci un ramino.
Alejandro Dolina, Diálogo entre Asmodeo y el Ruso Salzman (da Crónicas del Ángel Gris, 1987)
(È stata l'amica Gilda Manso, giornalista e scrittrice porteña, a diffondere questo testo di Alejandro Dolina e a spingere le giraffe a tradurlo)
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