lunedì

Dai dai contro quel sipario

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Parlavamo di donne, sbirciavamo le loro gambe quando smontavano da un’auto e, di notte, guardavamo dentro le finestre sperando di vedere qualcuno che scopava, ma non vedemmo mai niente. Una volta, finalmente, scoprimmo una coppia che se ne stava a letto e l’uomo stava stropicciandosi la donna. Adesso sì che ci siamo, pensammo, ma lei disse: “No, stasera non ne ho voglia!” Poi si girò di schiena. L’uomo si accese una sigaretta e noi partimmo in cerca di un’altra finestra.
“Figli di troia, a me nessuna volterebbe le spalle.”
“Neanche a me. Bella razza di uomo era quello!”
Eravamo in tre, Baldy, Jimmy e io. Il nostro grande giorno era la domenica. Tutte le domeniche ci davamo appuntamento a casa di Baldy e prendevamo l’autobus fino a Main Street. Il biglietto costava sette centesimi.
Allora c’erano due locali dove si dava il burlesque, il Follies e il Burbank. Eravamo tutti innamorati delle spogliarelliste del Burbank e, visto che anche le battute erano un po’ meglio, andavamo lì. Avevamo provato anche i cinema a luci rosse, ma i film che proiettavano non erano dei veri porno e la trama era sempre la stessa. Due tizi riuscivano a far sbronzare una giovane innocente e questa, prima di riprendersi dalla sbornia, si trovava chiusa in un bordello con una fila di marinai e di fannulloni che bussava alla sua porta. Oltre a tutto in quelle sale i barboni ci dormivano giorno e notte, pisciavano per terra, bevevano vino e si ripulivano le tasche a vicenda. Il puzzo di piscio, di vino e di violenza era insopportabile. Andammo al Burbank.
“Ehi, ragazzi, andate al burlesque oggi?” ci chiedeva il nonno di Baldy.
“Diavolo, no, signore. Abbiamo altro da fare.”
Ci andavamo, invece. Ci andavamo ogni domenica. Partivamo il mattino presto, molto prima che iniziasse lo spettacolo e passeggiavamo su e giù per Main Street, lanciando occhiate nei bar vuoti, sulla cui soglia sedevano le ragazze con le gonne alzate, facendo oscillare le caviglie nel fascio di sole che si insinuava all’interno del locale buio. Sembravano a posto. Ma noi sapevamo. L’avevamo sentito. Un tizio entrava a bere qualcosa e gli facevano sputare una barca di soldi, per il suo drink e per quello della ragazza. Solo che quello della ragazza era annacquato. Lei si faceva palpare per un po’ e tutto finiva lì. Se il barista capiva che il tizio era in grana, gli propinava un narcotico e l’altro si ritrovava per strada, senza un quattrino. Così andavano le cose.
Dopo aver passeggiato lungo Main Street, andavamo alla tavola calda e ordinavamo un hotdog da otto centesimi e un boccale grande di rootbeer. Praticavamo il sollevamento pesi e i nostri bicipiti erano gonfi e sodi. Portavamo le maniche arrotolate fin quasi alla spalla e avevamo un pacchetto di sigarette nella tasca della camicia, sul petto. Per un po’ di tempo avevamo frequentato uno dei corsi Charles Atlas, Tensione Dinamica si chiamava, ma poi avevamo optato per il sollevamento pesi, che ci era sembrato il sistema più rude e più ovvio.
Mentre mangiavamo l’hotdog e ci scolavamo il grande boccale di rootbeer giocavamo a flipper, un centesimo alla partita. Avevamo finito per conoscerlo molto bene, quell’arnese. Al di sopra di un certo punteggio, si vinceva una partita. Ma quel punteggio bisognava raggiungerlo, se volevamo continuare a giocare.
Franky Roosevelt era già stato eletto, le cose stavano cominciando a migliorare ma la depressione non era ancora passata e i nostri padri non avevano lavoro. La provenienza dei nostri quattro soldi era un mistero; l’unica spiegazione era che arraffavamo tutto quello che non era cementato a terra. Non rubavamo, ci pigliavamo la nostra parte. E inventavamo. Non avendo soldi o quasi, inventavamo dei giochetti per passare il tempo... uno era quello di arrivare fino alla spiaggia e tornare indietro.
Di solito lo si faceva d’estate e i nostri genitori non si lamentavano mai quando tornavamo a casa troppo tardi per la cena. Né si preoccupavano delle vesciche gonfie e lucenti che ci spuntavano sulla pianta dei piedi. Solo quando si accorgevano che i tacchi e le suole si erano consumati ne sentivamo di tutti i colori. Allora venivamo spediti al negozio dove erano in vendita, a un prezzo ragionevole, tacchi, suole e colla già pronti.
Era la stessa cosa quando giocavamo a football per le strade. Non esistevano i fondi pubblici per costruire campi da gioco. Avevamo una tale resistenza che giocavamo a football per la strada per tutta la stagione del football e poi per quella del basket e quella del baseball, fino alla stagione calcistica seguente. Quando uno viene placcato sull’asfalto, capita sempre qualcosa. La pelle si squarcia, ci si fanno delle contusioni, esce il sangue, ma ci si rialza come se niente fosse accaduto.
I nostri genitori non badavano ai graffi e al sangue e ai lividi; il peccato tremendo e imperdonabile era farsi un buco nei calzoni, all’altezza delle ginocchia. Ognuno di noi aveva solo due paia di calzoni: quello di tutti i giorni e quello della domenica e se uno si bucava, tutti capivano che eri povero e fesso e che anche i tuoi genitori erano poveri e fessi. Così avevamo imparato a placcare senza cadere in ginocchio. E anche il tizio che veniva placato imparava a essere placcato senza cadere in ginocchio.
Quando ci pestavamo, andavamo avanti per ore senza che i nostri genitori si sognassero di intervenire. Forse perché ci atteggiavamo a duri e non volevamo chiedere aiuto, mentre loro si aspettavano proprio questo. Ma noi li odiavamo, così uscivano sul portico e lanciavano un’occhiata indifferente alla rissa interminabile che si svolgeva davanti a loro. Poi sbadigliavano, raccoglievano un volantino lanciato per reclamizzare qualcosa e tornavano dentro.
Una volta mi pestai con un ragazzo che sarebbe diventato un pezzo grosso della Marina americana. Ci pestammo dalle otto e mezzo del mattino fin dopo il tramonto. Nessuno ci fermò nonostante fossimo ben visibili dal prato antistante la sua casa, sotto due enormi alberi del pepe, da cui i passeri ci cacavano in testa.
Fu un pestaggio feroce, fino all’ultimo sangue. Lui era più grosso, un po’ più vecchio e più pesante di me, ma io ero scatenato. La smettemmo per comune accordo. Non so come sia, bisogna sperimentarlo per capire, ma dopo che due se le sono date di santa ragione per otto o nove ore si stabilisce tra loro uno strano senso di fratellanza.
Il giorno dopo ero un livido solo. Le labbra erano troppo gonfie per permettermi di parlare e qualsiasi movimento facessi mi procurava dolore. Ero sdraiato sul letto in attesa della morte quando mia madre entrò con la camicia che avevo indossato durante il pestaggio. Me la sollevò all’altezza della faccia e mi disse: “Guarda, è tutta macchiata di sangue! Di sangue, capito?”
“Mi dispiace.”
“Non verrà mai più pulita! Mai più!”
“È stato lui a macchiarla.”
“Non importa! Questo è sangue! Le macchie di sangue non vengono via!”
Le domeniche erano giornate rilassanti e quiete, ma soprattutto nostre. Andavamo al Burbank. Prima c’era sempre un brutto film. Un vecchio film, che stavamo a guardare, in attesa. In realtà pensavamo alle ragazze. I tre o quattro tizi che formavano l’orchestra ci davano dentro; forse l’esecuzione non era un granché, ma il volume era alto. Finalmente uscivano le spogliarelliste e si afferravano al sipario, afferravano il bordo come se fosse stato un uomo e si scuotevano contro di esso. Poi scivolavano alla ribalta e cominciavano a spogliarsi. Se avevamo abbastanza soldi ci compravamo un sacchetto di popcorn, altrimenti ne facevamo a meno.
Alla fine di ogni atto c’era un intervallo. Un ometto veniva alla ribalta e proclamava: “Signore e signori, un po’ d’attenzione, prego...” Vendeva anelli in cui era incastonata una diapositiva. Orientandola controluce, si vedeva una straordinaria fotografia. Questo era quello che prometteva! Un anello costava solo cinquanta centesimi, un oggetto di gran valore per soli cinquanta centesimi, prodotto appositamente per il pubblico del Burbank, e venduto unicamente lì. “Alzatelo alla luce e vedrete! Grazie, signori e signore, della vostra cortese attenzione. E ora le maschere passeranno tra voi."
Un paio di individui cenciosi procedevano lungo i corridoi emanando un tanfo di moscato, ciascuno col suo sacchetto di anelli. Non ho mai visto nessuno comprarne uno. Immagino però che, guardandolo controluce, sarebbe apparsa l’immagine di una donna nuda.
L’orchestra riprendeva a suonare, il sipario si apriva e iniziava il numero del balletto, composto in gran parte di ex spogliarelliste invecchiate, truccate pesantemente con mascara, fard, rossetto e ciglia finte. Ce la mettevano tutta per stare a tempo con la musica, ma erano sempre un po’ in ritardo. Eppure tiravano avanti; mi sembravano molto coraggiose.
Poi veniva il turno della cantante. Era un’impresa farselo andare a genio. Cantava a voce spiegata, sbraitando di amori andati a male. Non era un granché e quando finiva allargava le braccia e chinava il capo per ringraziare degli applausi stentati che gli venivano rivolti.
Poi toccava al comico. Be’, lui sì che era in gamba! Vestito con un vecchio soprabito marrone, il cappello calato sugli occhi, camminava goffamente avanti e indietro come un barbone, un barbone che non sapeva cosa fare né dove andare. Una ragazza entrava in palcoscenico e lui la seguiva con gli occhi. Poi si voltava verso il pubblico e diceva con la sua bocca sdentata: “Bene, che io sia dannato!”
Un’altra ragazza entrava in palcoscenico e lui le si avvicinava, accostava la faccia alla sua e diceva: “Sono vecchio, ho superato i quarantaquattro, ma quando il letto si spacca, finisco per terra”. Era la frase decisiva. Che risate! Giovani e vecchi, scoppiavamo tutti a ridere. Infine c’era la scena della valigia. Il comico cercava di aiutare una ragazza a fare la valigia, ma i vestiti si rifiutavano di entrarci.
“Non riesco a farli star dentro!”
“Adesso ti aiuto io!”
“Sono saltati fuori un’altra volta!”
“Aspetta, ci monto sopra con i piedi!”
“Cosa? No, non provarci nemmeno!”
Finalmente le spogliarelliste, le stesse tre o quattro di prima, tornavano in scena. Ognuno di noi aveva la sua preferita, di cui era innamorato. Baldy aveva scelto una francese magrina, con l’asma e due cerchi neri sotto gli occhi. A Jimmy piaceva la donna Tigre (propriamente la Tigre). Gli avevo fatto notare che uno dei seni era nettamente più grosso dell’altro. La mia preferita era Rosalie.
Rosalie aveva un gran culo, che scuoteva e scuoteva, mentre cantava delle canzoncine buffe, e spogliandosi camminava per il palcoscenico, parlando tra sé e ridacchiando. Era l’unica a cui piacesse davvero il suo lavoro. Ero innamorato di Rosalie. Avevo spesso pensato di scriverle per dirle quant’era in gamba, ma, non so come, non l’avevo mai fatto.
Un pomeriggio stavamo aspettando l’autobus dopo lo spettacolo e alla fermata incontrammo la Tigre, anche lei in attesa. Era vestita con un abito verde molto aderente e noi ci incantammo a guardarla.
“Ehi, Jimmy, è la tua ragazza, la Tigre.”
“Ragazzi, che tocco! Guardatela!”
“Adesso vado e le parlo!” disse Baldy.
“È la ragazza di Jimmy.”
“Io non voglio parlarle” disse Jimmy.
“Ci penso io” disse Baldy. Si infilò una sigaretta in bocca, la accese e le si avvicinò.
“Salve, bambina!” Le sorrise.
La Tigre non rispose. Continuò a fissare davanti a sé, in attesa che arrivasse l’autobus.
“Ti conosco. Ho visto lo spettacolo oggi. Sei uno schianto, pupa, un vero schianto!”
La Tigre non rispose.
“Mio Dio, come ti scuoti! Ti scuoti che è un piacere!”
La Tigre continuò a fissare davanti a sé. Baldy rimase lì a guardarla sorridendo come un idiota. “Vorrei metterlo dentro. Vorrei scoparti, bambina!”
Ci avvicinammo e lo trascinammo via. Ci mettemmo a camminare lungo la strada tirandocelo dietro. “Stronzo, non avevi il diritto di parlare in quel modo!”
“Be’, lei vien fuori e si agita tutta, e lo fa davanti agli uomini!”
“Deve ben guadagnarsi da vivere.”
“È calda, è tutta un fuoco, è lei che se lo cerca!”
“Sei pazzo!”
E ce lo tirammo dietro per la strada.


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N
on molto tempo dopo il mio interesse per le domeniche in Main Street cominciò ad affievolirsi. Forse il Follies e il Burbank esistono ancora. Naturalmente la Tigre, la spogliarellista con l’asma e Rosalie, la mia Rosalie, non ci sono più da un pezzo. Forse sono morte. Forse il gran culo di Rosalie è morto. Quando torno nel mio quartiere, passo in macchina davanti alla casa dove abitavo e dove ora vivono degli sconosciuti. Eppure quelle erano delle belle domeniche, in cui ci si divertiva, uno squarcio di luce nei giorni bui della depressione, quando i nostri padri, disoccupati e impotenti, uscivano sul portico e ci guardavano pestarci di santa ragione, poi rientravano e se ne stavano a fissare le pareti, senza osare accendere la radio per via del conto della luce.



Charles Bukowski (16 agosto 1920-9 marzo 1994), Bop Bop against That Curtain (in South of No North), 1973

(Traduzione di Mariagiulia Castagnone — dai racconti A Sud di nessun Nord, Tea editrice, Milano 2003; immagini tratte da Modern Mechanix)

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