È per questo che l’ho fatta chiamare, Müller. Ora che le mie dimissioni sono state accettate, lei sarà il mio successore: la sua nomina a direttore è imminente. Non finga di cadere dalle nuvole: è da parecchio che la voce circola tra noi, e certo sarà arrivata anche al suo orecchio. Del resto, non c’è dubbio che tra i giovani quadri della nostra organizzazione, lei Müller è il più preparato, quello che conosce – si può dire – tutti i segreti del nostro lavoro. In apparenza, almeno. Mi lasci dire: nonè di mia iniziativa che le parlo, ma per incarico dei nostri superiori. Solo di alcune questioni lei non è ancora al corrente, ed è venuto il momento che lei sappia, Müller. Lei crede, come tutti del resto, che la nostra organizzazione stia da molti anni preparando il più grande centro di documentazione che sia mai stato progettato, uno schedario che raccolga e ordini tutto quello che si sa d’ogni persona e animale e cosa, in vista d’un inventario generale non solo del presente ma anche del passato, di tutto quello che c’è stato dalle origini, insomma una storia generale di tutto contemporaneamente, o meglio un catalogo di tutto momento per momento. Effettivamente, è a questo che lavoriamo, e possiamo dire di essere a buon punto: non solo il contenuto delle più importanti biblioteche del mondo, degli archivi e dei musei, delle annate dei giornali d’ogni paese è già nelle nostre schede perforate, ma anche una documentazione raccolta ad hoc, persona per persona, luogo per luogo. E tutto questo materiale passa attraverso un processo di riduzione all’essenziale, condensazione, miniaturizzazione, che non sappiamo ancora a che punto s’arresterà; così come tutte le immagini esistenti e possibili vengono archiviate in minuscole bobine di microfilm, e microscopici rocchetti di filo magnetico racchiudono tutti i suoni registrati e registrabili. È una memoria centralizzata del genere umano quella che noi siamo intenti a costruire, cercando d’immagazzinarla in uno spazio il più ristretto possibile, sul tipo delle memorie individuali dei nostri cervelli.
Ma è inutile che ripeta queste cose proprio a lei che è entrato qui da noi vincendo il concorso d’ammissione col progetto «Tutto il British Museum in una castagna». Lei è tra noi da relativamente pochi anni, ma conosce ormai il funzionamento dei nostri laboratori quanto me che ho occupato il posto di direttore dalla fondazione. Non l’avrei mai lasciato, questo posto, gliel’assicuro, se m’avessero sorretto le forze. Ma dopo la misteriosa scomparsa di mia moglie, m’ha preso una crisi di depressione da cui non riesco a rimettermi. È giusto che i nostri superiori – accogliendo del resto quello che è anche un mio desiderio – abbiano pensato a sostituirmi. Tocca quindi a me metterla al corrente dei segreti d’ufficio che finora le sono stati taciuti.
Quello che lei non sa è il vero scopo del nostro lavoro. È per la fine del mondo, Müller. Lavoriamo in vista d’una prossima fine della vita sulla Terra. È perché tutto non sia stato inutile, per trasmettere tutto quello che sappiamo ad altri che non sappiamo chi sono né cosa sanno.
Posso offrirle un sigaro? La previsione che la Terra non resterà abitabile per molto tempo ancora – almeno per il genere umano – non può farci troppa impressione. Già sapevamo tutti che il Sole è arrivato alla metà della sua vita: per bene che andasse, tra quattro o cinque miliardi d’anni tutto sarebbe finito. Di qui a un po’, insomma, il problema si sarebbe posto in ogni modo; la novità è che le scadenze sono molto più ravvicinate, che non abbiamo tempo da perdere, ecco tutto. L’estinzione della nostra specie è certo una prospettiva triste, ma piangervi sopra non è che una ben vana consolazione, come recriminare una morte individuale. (È sempre alla scomparsa della mia Angela che penso, perdoni la mia commozione). In milioni di pianeti sconosciuti vivono certamente degli esseri simili a noi; poco importa se a ricordarci e a continuarci saranno i loro discendenti anziché i nostri. L’importante è comunicare loro la nostra memoria, la memoria generale messa a punto dall’organizzazione di cui lei Müller sta per esser nominato direttore.
Non si spaventi; l’ambito del suo lavoro resterà quello che è stato finora. Il sistema per comunicare la nostra memoria ad altri pianeti è studiato da un’altra branca dell’organizzazione; noi abbiamo già il nostro daffare, e nemmeno ci riguarda se saranno ritenuti più idonei mezzi ottici o acustici. Può anche darsi che non si tratterà di trasmetterli, i messaggi, ma di depositarli al sicuro, sotto la crosta terrestre: il relitto del nostro pianeta vagante per lo spazio potrebbe un giorno essere raggiunto ed esplorato da archeologi extragalattici. Nemmeno il codice o i codici che saranno prescelti sono affar nostro: c’è pure una branca che studia solo questo, il modo di rendere intellegibile il nostro stock d’informazioni, qualsiasi sistema linguistico usino gli altri. Per lei, ora che sa, non è cambiato nulla, le assicuro, tranne che nella responsabilità che l’aspetta. È di questo che volevo discorrere un po’ con lei.
Ma è inutile che ripeta queste cose proprio a lei che è entrato qui da noi vincendo il concorso d’ammissione col progetto «Tutto il British Museum in una castagna». Lei è tra noi da relativamente pochi anni, ma conosce ormai il funzionamento dei nostri laboratori quanto me che ho occupato il posto di direttore dalla fondazione. Non l’avrei mai lasciato, questo posto, gliel’assicuro, se m’avessero sorretto le forze. Ma dopo la misteriosa scomparsa di mia moglie, m’ha preso una crisi di depressione da cui non riesco a rimettermi. È giusto che i nostri superiori – accogliendo del resto quello che è anche un mio desiderio – abbiano pensato a sostituirmi. Tocca quindi a me metterla al corrente dei segreti d’ufficio che finora le sono stati taciuti.
Quello che lei non sa è il vero scopo del nostro lavoro. È per la fine del mondo, Müller. Lavoriamo in vista d’una prossima fine della vita sulla Terra. È perché tutto non sia stato inutile, per trasmettere tutto quello che sappiamo ad altri che non sappiamo chi sono né cosa sanno.
Posso offrirle un sigaro? La previsione che la Terra non resterà abitabile per molto tempo ancora – almeno per il genere umano – non può farci troppa impressione. Già sapevamo tutti che il Sole è arrivato alla metà della sua vita: per bene che andasse, tra quattro o cinque miliardi d’anni tutto sarebbe finito. Di qui a un po’, insomma, il problema si sarebbe posto in ogni modo; la novità è che le scadenze sono molto più ravvicinate, che non abbiamo tempo da perdere, ecco tutto. L’estinzione della nostra specie è certo una prospettiva triste, ma piangervi sopra non è che una ben vana consolazione, come recriminare una morte individuale. (È sempre alla scomparsa della mia Angela che penso, perdoni la mia commozione). In milioni di pianeti sconosciuti vivono certamente degli esseri simili a noi; poco importa se a ricordarci e a continuarci saranno i loro discendenti anziché i nostri. L’importante è comunicare loro la nostra memoria, la memoria generale messa a punto dall’organizzazione di cui lei Müller sta per esser nominato direttore.
Non si spaventi; l’ambito del suo lavoro resterà quello che è stato finora. Il sistema per comunicare la nostra memoria ad altri pianeti è studiato da un’altra branca dell’organizzazione; noi abbiamo già il nostro daffare, e nemmeno ci riguarda se saranno ritenuti più idonei mezzi ottici o acustici. Può anche darsi che non si tratterà di trasmetterli, i messaggi, ma di depositarli al sicuro, sotto la crosta terrestre: il relitto del nostro pianeta vagante per lo spazio potrebbe un giorno essere raggiunto ed esplorato da archeologi extragalattici. Nemmeno il codice o i codici che saranno prescelti sono affar nostro: c’è pure una branca che studia solo questo, il modo di rendere intellegibile il nostro stock d’informazioni, qualsiasi sistema linguistico usino gli altri. Per lei, ora che sa, non è cambiato nulla, le assicuro, tranne che nella responsabilità che l’aspetta. È di questo che volevo discorrere un po’ con lei.
Cosa sarà il genere umano al momento dell’estinzione? Una certa quantità d’informazione su se stesso e sul mondo, una quantità finita, dato che non potrà più rinnovarsi e aumentare. Per un certo tempo, l’universo ha avuto una particolare occasione di raccogliere ed elaborare informazione; e di crearla, di far saltar fuori informazione là dove non ci sarebbe stato niente da informare di niente: questo è stata la vita sulla Terra e soprattutto il genere umano, la sua memoria, le sue invenzioni per comunicare e ricordare. La nostra organizzazione garantisce che questa quantità d’informazione non si disperda, indipendentemente dal fatto che essa venga o no ricevuta da altri. Sarà scrupolo del direttore far sì che non resti fuori niente, perché quel che resta fuori è come se non ci fosse mai stato. E nello stesso tempo sarà suo scrupolo fare come se non ci fosse mai stato tutto ciò che finirebbe per impastoiare o mettere in ombra altre cose più essenziali, cioè tutto quello che anziché aumentare l’informazione creerebbe un inutile disordine e frastuono. L’importante è il modello generale costituito dall’insieme delle informazioni, dal quale potranno essere ricavate altre informazioni che noi non diamo e che magari non abbiamo. Insomma non dando certe informazioni se ne danno di più di quante non se ne darebbe dandole. Il risultato fìnale de1 nostro lavoro sarà un modello in cui tutto conta come informazione, anche ciò che non c’è. Solo allora si potrà sapere, di tutto ciò che è stato, cos’è che contava davvero, ossia cos’è che c’è stato veramente, perché il risultato finale della nostra documentazione sarà insieme ciò che è, è stato e sarà, e tutto il resto niente.
Certo capitano dei momenti nel nostro lavoro – anche lei ne avrà avuti Müller – in cui si è tentati di pensare che solo ciò che sfugge alla nostra registrazione è importante, che solo ciò che passa senza lasciar traccia esiste veramente, mentre tutto quel che i nostri schedari ritengono è la parte morta, i trucioli, la scoria. Viene il momento in cui uno sbadiglio, una mosca che vola, un prurito ci paiono il solo tesoro appunto perché assolutamente inutilizzabile, dato una volta per tutte e subito dimenticato, sottratto al destino monotono dell’immagazzinamento nella memoria del mondo. Chi può escludere che l’universo consista nella rete discontinua degli attimi non registrabili, e che la nostra organizzazione non ne controlli altro che lo stampo negativo, la comice di vuoto e d’insignificanza?
Ma la nostra deformazione professionale è questa: appena ci fissiamo su qualcosa, subito vorremmo comprenderla nei nostri schedari; e così mi è spesso accaduto, le confesso, di catalogare sbadigli, foruncoli, associazioni d’idee sconvenienti, fischiettii, e di nasconderli nel pacco delle informazioni più qualificate. Perché il posto di direttore cui lei sta per essere chiamato ha questo privilegio: di poter dare un’impronta personale alla memoria del mondo. Mi segua, Müller: non le sto parlando d’un arbitrio e d’un abuso di poteri, ma d’una componente indispensabile del nostro lavoro. Una massa d’informazioni freddamente oggettive, incontrovertibili, rischierebbe di fornire un’immagine lontana dal vero, di falsare quel che è più specifico d’ogni situazione. Supponiamo che ci arrivi da un altro
pianeta un messaggio di puri dati di fatto, d’una chiarezza addirittura ovvia: non gli presteremmo attenzione, non ce ne accorgeremmo nemmeno; solo un messaggio che contenesse qualcosa di inespresso, di dubbioso, di parzialmente indecifrabile forzerebbe la soglia della nostra coscienza, imporrebbe d’esser ricevuto e interpretato. Dobbiamo tener conto di questo: compito del direttore è dare all’insieme dei dati raccolti e selezionati dai nostri uffici quella lieve impronta soggettiva, quel tanto d’opinabile, d’arrischiato, di cui hanno bisogno per essere veri. Dì questo volevo avvertirla, prima di farle le consegne: nel materiale finora raccolto si nota qua e là l’intervento della mia mano – d’un’estrema delicatezza, intendiamoci –; vi sono disseminati giudizi, reticenze, anche menzogne.
La menzogna esclude solo in apparenza la verità; lei sa che in molti casi le menzogne – per esempio, per il psicoanalista quelle del paziente – sono indicative quanto o più della verità; e così sarà per coloro che si troveranno a interpretare il nostro messaggio. Müller, dicendole quel che le dico ora non è più per incarico dei nostri superiori che parlo ma in base alla mia personale esperienza, da collega a collega, da uomo a uomo. Mi ascolti: la menzogna è la vera informazione che noi abbiamo da trasmettere. Perciò non mi sono voluto vietare un uso discreto della menzogna, là dove essa non complicava il messaggio, anzi lo semplificava. Soprattutto nelle notizie su me stesso, mi sono creduto autorizzato ad abbondare in particolari non veri (la cosa non credo possa dar disturbo a nessuno). Per esempio, la mia vita con Angela: l’ho descritta come avrei voluto che fosse, una grande storia d’amore, in cui Angela e io appaiamo come due eterni innamorati, felici in mezzo ad avversità d’ogni sorta, appassionati, fedeli. Non è stato esattamente così, Müller: Angela mi sposò per interesse e subito se ne pentì, la nostra vita fu un seguito di meschinità e sotterfugi. Ma cosa conta quello che è stato giorno per giorno? Nella memoria del mondo l’immagine d’Angela è definitiva, perfetta, nulla può scalfirla e io sarò per sempre lo sposo più invidiabile che sia mai esistito.
Dapprincipio non avevo che da compiere un abbellimento dei dati che mi forniva la nostra vita quotidiana. A un certo punto questi dati che mi trovavo sotto gli occhi nell’osservare Angela giorno per giorno (e poi nello spiarla, nel pedinarla, alla fine) cominciarono a diventare sempre più contraddittori, ambigui, tali da giustificare sospetti infamanti. Cosa dovevo fare, Müller? Confondere, rendere inintelligibile quell’immagine di Angela così chiara e trasmissibile, così amata e amabile, offuscare il messaggio più splendente di tutti i nostri schedari? Eliminavo questi dati giorno per giorno, senza esitare. Ma avevo sempre paura che intorno all’immagine definitiva di Angela restasse qualche indizio, qualche sottinteso, una traccia da cui si potesse dedurre quello che lei – quello che l’Angela nella vita effimera – era e faceva. Passavo le giornate in laboratorio a selezionare, a cancellare, a omettere. Ero geloso, Müller: non geloso dell’Angela effìmera – quella ormai era per me una partita perduta – ma geloso di quell’Angela-informazione che sarebbe sopravvissuta per tutta la durata dell’universo.
Certo capitano dei momenti nel nostro lavoro – anche lei ne avrà avuti Müller – in cui si è tentati di pensare che solo ciò che sfugge alla nostra registrazione è importante, che solo ciò che passa senza lasciar traccia esiste veramente, mentre tutto quel che i nostri schedari ritengono è la parte morta, i trucioli, la scoria. Viene il momento in cui uno sbadiglio, una mosca che vola, un prurito ci paiono il solo tesoro appunto perché assolutamente inutilizzabile, dato una volta per tutte e subito dimenticato, sottratto al destino monotono dell’immagazzinamento nella memoria del mondo. Chi può escludere che l’universo consista nella rete discontinua degli attimi non registrabili, e che la nostra organizzazione non ne controlli altro che lo stampo negativo, la comice di vuoto e d’insignificanza?
Ma la nostra deformazione professionale è questa: appena ci fissiamo su qualcosa, subito vorremmo comprenderla nei nostri schedari; e così mi è spesso accaduto, le confesso, di catalogare sbadigli, foruncoli, associazioni d’idee sconvenienti, fischiettii, e di nasconderli nel pacco delle informazioni più qualificate. Perché il posto di direttore cui lei sta per essere chiamato ha questo privilegio: di poter dare un’impronta personale alla memoria del mondo. Mi segua, Müller: non le sto parlando d’un arbitrio e d’un abuso di poteri, ma d’una componente indispensabile del nostro lavoro. Una massa d’informazioni freddamente oggettive, incontrovertibili, rischierebbe di fornire un’immagine lontana dal vero, di falsare quel che è più specifico d’ogni situazione. Supponiamo che ci arrivi da un altro
pianeta un messaggio di puri dati di fatto, d’una chiarezza addirittura ovvia: non gli presteremmo attenzione, non ce ne accorgeremmo nemmeno; solo un messaggio che contenesse qualcosa di inespresso, di dubbioso, di parzialmente indecifrabile forzerebbe la soglia della nostra coscienza, imporrebbe d’esser ricevuto e interpretato. Dobbiamo tener conto di questo: compito del direttore è dare all’insieme dei dati raccolti e selezionati dai nostri uffici quella lieve impronta soggettiva, quel tanto d’opinabile, d’arrischiato, di cui hanno bisogno per essere veri. Dì questo volevo avvertirla, prima di farle le consegne: nel materiale finora raccolto si nota qua e là l’intervento della mia mano – d’un’estrema delicatezza, intendiamoci –; vi sono disseminati giudizi, reticenze, anche menzogne.
La menzogna esclude solo in apparenza la verità; lei sa che in molti casi le menzogne – per esempio, per il psicoanalista quelle del paziente – sono indicative quanto o più della verità; e così sarà per coloro che si troveranno a interpretare il nostro messaggio. Müller, dicendole quel che le dico ora non è più per incarico dei nostri superiori che parlo ma in base alla mia personale esperienza, da collega a collega, da uomo a uomo. Mi ascolti: la menzogna è la vera informazione che noi abbiamo da trasmettere. Perciò non mi sono voluto vietare un uso discreto della menzogna, là dove essa non complicava il messaggio, anzi lo semplificava. Soprattutto nelle notizie su me stesso, mi sono creduto autorizzato ad abbondare in particolari non veri (la cosa non credo possa dar disturbo a nessuno). Per esempio, la mia vita con Angela: l’ho descritta come avrei voluto che fosse, una grande storia d’amore, in cui Angela e io appaiamo come due eterni innamorati, felici in mezzo ad avversità d’ogni sorta, appassionati, fedeli. Non è stato esattamente così, Müller: Angela mi sposò per interesse e subito se ne pentì, la nostra vita fu un seguito di meschinità e sotterfugi. Ma cosa conta quello che è stato giorno per giorno? Nella memoria del mondo l’immagine d’Angela è definitiva, perfetta, nulla può scalfirla e io sarò per sempre lo sposo più invidiabile che sia mai esistito.
Dapprincipio non avevo che da compiere un abbellimento dei dati che mi forniva la nostra vita quotidiana. A un certo punto questi dati che mi trovavo sotto gli occhi nell’osservare Angela giorno per giorno (e poi nello spiarla, nel pedinarla, alla fine) cominciarono a diventare sempre più contraddittori, ambigui, tali da giustificare sospetti infamanti. Cosa dovevo fare, Müller? Confondere, rendere inintelligibile quell’immagine di Angela così chiara e trasmissibile, così amata e amabile, offuscare il messaggio più splendente di tutti i nostri schedari? Eliminavo questi dati giorno per giorno, senza esitare. Ma avevo sempre paura che intorno all’immagine definitiva di Angela restasse qualche indizio, qualche sottinteso, una traccia da cui si potesse dedurre quello che lei – quello che l’Angela nella vita effimera – era e faceva. Passavo le giornate in laboratorio a selezionare, a cancellare, a omettere. Ero geloso, Müller: non geloso dell’Angela effìmera – quella ormai era per me una partita perduta – ma geloso di quell’Angela-informazione che sarebbe sopravvissuta per tutta la durata dell’universo.
La prima condizione perché l’Angela-informazione non fosse toccata da nessuna macchia era che l’Angela vivente non continuasse a sovrapporsi alla sua immagine. Fu allora che Angela scomparve e tutte le ricerche furono vane. Sarebbe inutile che adesso io le raccontassi, Müller, di come riuscii a disfarmi del cadavere pezzo a pezzo. Resti pur calmo, questi particolari non hanno nessuna importanza ai fini del nostro lavoro, perché nella memoria del mondo io resto lo sposo felice e poi il vedovo inconsolabile che tutti voi conoscete. Ma non ho trovato la pace: l’Angela-informazione restava pur sempre parte d’un sistema d’informazioni, alcune delle quali potevano prestarsi a essere interpretate, – per disturbi nella trasmissione, o per malignità del decodificatore – come supposizioni equivoche, insinuazioni, illazioni. Decisi di distruggere nei nostri schedari ogni presenza di persone con cui Angela poteva aver avuto rapporti intimi. Mi è molto dispiaciuto, perché di alcuni dei nostri colleghi non resterà traccia nella memoria del mondo, come se non fossero mai esistiti.
Lei crede che le dica queste cose per chiedere la sua complicità, Müller. No, non è questo il punto. Devo informarla delle misure estreme che sono obbligato a prendere per far sì che l’informazione d’ogni possibile amante di mia moglie resti esclusa dagli schedari. Non mi preoccupo delle conseguenze per me; gli anni che mi restano da vivere sono pochi rispetto all’eternità con cui sono abituato a fare i conti; e quello che io sono stato veramente l’ho già stabilito una volta per tutte e consegnato alle schede perforate.
Se nella memoria del mondo non c’è niente da correggere, la sola cosa che resta da fare è correggere la realtà dove essa non concorda con la memoria del mondo. Come ho cancellato l’esistenza dell’amante di mia moglie dalle schede perforate così devo cancellare lui dal mondo delle persone viventi. È per questo che ora estraggo la pistola, la punto contro di lei, Müller, schiaccio il grilletto, l’uccido.
Italo Calvino (1923-1985), La memoria del mondo, 1968
(Tratto da Tutte le cosmicomiche, a cura di Claudio Milanini, Mondadori 1997)
Lei crede che le dica queste cose per chiedere la sua complicità, Müller. No, non è questo il punto. Devo informarla delle misure estreme che sono obbligato a prendere per far sì che l’informazione d’ogni possibile amante di mia moglie resti esclusa dagli schedari. Non mi preoccupo delle conseguenze per me; gli anni che mi restano da vivere sono pochi rispetto all’eternità con cui sono abituato a fare i conti; e quello che io sono stato veramente l’ho già stabilito una volta per tutte e consegnato alle schede perforate.
Se nella memoria del mondo non c’è niente da correggere, la sola cosa che resta da fare è correggere la realtà dove essa non concorda con la memoria del mondo. Come ho cancellato l’esistenza dell’amante di mia moglie dalle schede perforate così devo cancellare lui dal mondo delle persone viventi. È per questo che ora estraggo la pistola, la punto contro di lei, Müller, schiaccio il grilletto, l’uccido.
Italo Calvino (1923-1985), La memoria del mondo, 1968
(Tratto da Tutte le cosmicomiche, a cura di Claudio Milanini, Mondadori 1997)
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