giovedì
Il cappotto
In un ministero... ma è meglio non dire in quale. Non c'è nulla di più suscettibile dei ministeri, dei reggimenti, degli uffici e, insomma, d'ogni sorta di corpo burocratico. Al giorno d'oggi, ormai, ogni privato cittadino ritiene che in esso venga offesa tutta la società. Pare che molto recentemente un capitano di polizia non ricordo di quale città, abbia presentato un esposto in cui dice a chiare note che le istituzioni statali vanno in rovina e che il loro sacro nome viene pronunciato invano. E, come prova delle sue affermazioni, costui ha allegato all'esposto il grosso volume di un'opera letteraria dove, ogni dieci pagine, appare un capitano di polizia, in certi punti persino in stato d'ubriachezza. Perciò, a evitare ogni seccatura, sarà meglio chiamare un ministero il ministero di cui si tratta. Dunque, in un ministero prestava servizio un funzionario, un funzionario che non si può dire fosse molto importante; era anzi di bassa statura, alquanto butterato, rossiccio, persino un po' debole di vista, con una incipiente calvizie sulla fronte, con rughe da entrambe le parti delle guance e quel colore della faccia che si dice emorroidale... Che farci? la colpa è del clima di Pietroburgo. Quanto al grado (giacchè da noi bisogna innanzitutto dichiarare il grado), era ciò che viene chiamato un eterno consigliere titolare, del quale, com'è noto, si sono beffati e presi gioco in abbondanza i vari scrittori che hanno la lodevole abitudine di prendersela con quelli che non possono mordere. Il cognome del funzionario era Bašmaèkìn. Già da questo nome si vede che esso, in un tempo lontano, aveva avuto origine da una scarpa; ma quando, in quale epoca e in qual modo esso fosse derivato dalla scarpa è assolutamente ignoto. Sia il padre, sia il nonno, sia il cognato, insomma assolutamente tutti i Bašmakìn andavano in giro con gli stivali, rinnovando solo tre volte all'anno le suole. Il suo nome era: Akàkij Akakièvič. Al lettore esso parrà forse alquanto strano e ricercato, ma posso assicurare che esso non era stato affatto scelto, ma a causa di particolari circostanze non fu assolutamente possibile dare un altro nome. Avvenne precisamente così: Akàkij Akakièvič nacque verso sera, se la memoria non mi tradisce, il ventitrè di marzo. La madre, moglie d'un funzionario e ottima donna, si dispose, come si usa, a battezzare il bambino. Ella giaceva ancora nel letto, di fronte alla porta, e alla sua destra stava il padrino, uomo eccellente, Ivàn Ivànovič Eroškìn, che prestava servizio come capufficio al senato, e la madrina, moglie d'un ufficiale di polizia, donna di rare virtù, Arìna Semënovna Belobrjùškova. Alla genitrice proposero di scegliere fra uno dei tre seguenti nomi: Mòkkija, Sòssija, oppure di chiamarlo con il nome del martire Chozdazàt.
«No,» pensò la madre, «che razza di nomi!»
Per compiacerla aprirono il calendario in un altro punto; uscirono altri tre nomi: Trifìlij, Dùla e Varachàsij.
«Ma questo è un flagello,» disse la donna, «che razza di nomi continuano a venir fuori; io, davvero, non li ho mai sentiti. Fosse ancora Varadàt o Varùch, ma Trifìlij e Varachàsij!»
Voltarono ancora la pagina, e uscirono: Pavsikàkij e Vachtìsij.
«Be', ormai vedo,» disse la donna, «che, a quel che pare, questo è il destino. Già che dev'essere così, meglio che si chiami come suo padre. Suo padre è Akàkij e che pure il figlio dunque sia Akàkij.»
In questo modo saltò fuori Akàkij Akakièvič. Il bambino venne battezzato, e durante il battesimo egli si mise a piangere e fece una smorfia, come se avesse il presentimento di diventare un giorno consigliere titolare. Così, ecco come avvenne tutto ciò. Abbiamo riportato questi fatti per far convinto il lettore che ciò accadde proprio per necessità di cose e che non si poteva assolutamente imporre un altro nome.
Quando e in qual modo Akàkij Akakièvič fosse entrato al ministero e chi ve l'avesse messo, è una cosa che nessuno ricordava. Per quanti direttori e vari superiori cambiassero, videro sempre lui allo stesso posto, nella stessa posizione, con le stesse funzioni, sempre lo stesso impiegato copista, tanto che poi si persuasero che, evidentemente, doveva esser venuto al mondo così, già pronto con l'uniforme e con la calvizie sulla testa. Nel ministero non gli dimostravano alcuna stima. Non soltanto i custodi non si alzavano dal loro posti quando passava, ma nemmeno lo guardavano, come se attraverso l'anticamera fosse volata una semplice mosca. I superiori si comportavano con lui in un certo modo freddamente dispotico. Un qualsiasi aiutante del capufficio gli ficcava letteralmente sotto il naso gl'incartamenti, senza neppure dirgli «copiate», oppure «ecco un bell'affaruccio interessante» o insomma qualcosa di piacevole come si usa negli uffici dove c'è della buona educazione. E lui prendeva, guardando solo l'incartamento, senza badare a chi gliel'aveva messo lì e se ne avesse il diritto. Prendeva e subito si metteva a copiarlo. I giovani funzionari ridevano di lui e lo motteggiavano per quanto poteva l'arguzia burocratica, raccontavano in sua presenza vane storie inventate sul suo conto; per esempio dicevano che la sua padrona di casa, una vecchia settantenne, lo picchiava; o domandavano quando loro due si sarebbero sposati; oppure gli spargevano sulla testa pezzi di carta, dicendo che era neve. A questo però Akàkij Akakièvič non rispondeva con una sola parola, come se non avesse nessuno davanti a sè; e non si lasciava distrarre dalle sue occupazioni: in mezzo a tutte queste molestie non faceva un solo sbaglio nel copiare. Solo se lo scherzo era troppo insopportabile, se gli davano un colpo sul braccio disturbandolo nel suo lavoro, esclamava:
«Lasciatemi stare, perchè mi offendete?»
E c'era un che di strano nelle parole e nella voce con cui venivano dette. Vi si avvertiva qualcosa che induceva alla compassione, tanto che un giovanotto da poco entrato in servizio, e che aveva cominciato, secondo l'esempio degli altri, a burlarsi di lui, a un tratto si fermò colpito, e da quel momento fu come se tutto fosse cambiato ai suoi occhi e gli apparisse sotto un aspetto diverso. Una specie di forza soprannaturale lo respinse dai compagni con i quali aveva fatto conoscenza ritenendoli persone distinte ed educate. E poi per molto tempo, nei momenti più allegri, seguitò ad apparirgli il piccolo funzionario con le calvizie che diceva le parole toccanti: «Lasciatemi stare, perchè mi offendete?» e in queste parole altre ne echeggiavano: «Io sono un tuo fratello.» Il povero giovanotto si copriva allora la faccia con una mano e in seguito molte volte trasalì nella sua vita, vedendo quanta disumanità ci sia nell'uomo, quanta furiosa volgarità si nasconda nella personalità più raffinata e colta, e, Dio! persino in individui che il mondo reputa nobili e onesti.
Sarebbe stato difficile trovare un uomo che vivesse così del suo lavoro. È poco dire che egli prestava servizio con zelo; no, prestava servizio con amore. Lì, in quel copiare, egli vedeva un certo mondo proprio, vario e piacevole. La soddisfazione si dipingeva sulla sua faccia; alcune lettere erano le sue favorite e, quando vi s'imbatteva, non era più lui: ridacchiava, ammiccava, si aiutava con le labbra, sicchè pareva che sulla sua faccia si potesse leggere ogni lettera che la sua penna vergava. Se l'avessero ricompensato in maniera proporzionata al suo zelo, con sua meraviglia egli sarebbe forse diventato persino consigliere di stato; mentre tutto ciò che aveva ottenuto, come si esprimevano gli spiritosi suoi compagni, era una fibbia all'occhiello e le emorroidi ai lombi. Del resto, non si può dire che non si facesse alcuna attenzione a lui. Un direttore che era un buon uomo e voleva ricompensarlo per il lungo servizio, ordinò di dargli qualcosa di più importante della solita copiatura; gli fu così ordinato di stendere, di una pratica già pronta, una relazione a un altro ufficio; si trattava soltanto di cambiare il titolo di testa e poi di portare alcuni verbi dalla prima persona alla terza. Ma questo gli costò una tale fatica che egli diventò tutto un sudore, si terse la fronte e alla fine disse:
«No, datemi piuttosto qualcosa da copiare.»
Da quella volta lo lasciarono per sempre al suo lavoro di copiatura. Fuori del copiare sembrava che per lui non esistesse niente. Non pensava affatto al proprio abito: l'uniforme che portava non era verde, ma di un certo colore rossiccio farinoso. Il colletto l'aveva così basso e stretto, che il collo, quantunque non fosse affatto lungo, uscendo da quel colletto pareva insolitamente lungo, come in quei gattini di gesso che muovono la testa e che venditori ambulanti russi sedicenti stranieri portano sul capo a decine intere. E poi c'era sempre qualcosa appiccicato alla sua uniforme, una pagliuzza o un filo; per di più aveva la speciale arte, quando usciva in strada, di capitare sotto una finestra proprio nell'istante in cui da essa buttavano fuori ogni sorta di porcherie e perciò sul suo cappello non mancavano mai scorze di anguria e di melone e altre sciocchezzuole del genere. Mai una volta nella vita aveva rivolto l'attenzione a ciò che si faceva e che accadeva ogni giorno per strada, cosa a cui, com'è noto, sempre guardano i suoi colleghi, i giovani funzionari che talmente estendono la capacità penetrativa del loro vivace sguardo da notare addirittura sul marciapiede opposto un bordo di pantaloni scucito, ciò che sempre suscita un malizioso sorriso sulla loro faccia.
Ma Akàkij Akakjèvič, anche se guardava qualcosa, vedeva sempre le sue righe pulite, scritte con calligrafia regolare, e forse soltanto se un muso di cavallo, venuto chissà di dove, gli si appoggiava su una spalla e gli soffiava dalle froge un uragano di vento nel collo, forse solo allora si accorgeva che non stava a metà d'una riga, ma a metà d'una strada.
Arrivando a casa si sedeva subito a tavola, trangugiava alla svelta il suo šèi e mangiava un pezzo di bue con la cipolla, senza rendersi conto del loro sapore; mangiava tutto questo insieme con le mosche e con tutto quello che Dio gli mandava in quel momento. Quando sentiva che lo stomaco cominciava a gonfiarsi, si alzava da tavola, tirava fuori una boccetta d'inchiostro e ricopiava qualche incartamento che s'era portato a casa. Se non ne aveva, faceva apposta, per il proprio piacere, una copia per sè, specialmente se l'incartamento era considerevole non tanto per l'eleganza dello stile, quanto per il fatto che si rivolgeva a qualche personaggio nuovo o importante.
Persino nelle ore in cui il grigio cielo di Pietroburgo si spegne completamente e tutto il popolo impiegatizio s'è pasciuto e saziato, come ognuno può, in conformità agli stipendi e al personale capriccio, quando tutti riposano dopo il ministeriale scricchiolio di penne, il correre qua e là, le imprescindibili occupazioni proprie e altrui (che l'uomo inquieto s'assegna volontariamente persino più del necessario), quando i funzionari s'affrettano a dedicare al piacere il tempo che resta: chi è più vivace, corre a teatro; chi in strada, dedicando il proprio tempo alla contemplazione di certi cappellini; chi a una serata, prodigando complimenti a qualche leggiadra ragazza, stella d'una piccola cerchia di funzionari; chi, e questo succede più spesso, se ne va semplicemente da un amico a un quarto o terzo piano, in due piccole stanze con un'anticamera e una cucina e certe pretese di eleganza, una lampada o un'altra cosetta che è costata molti sacrifici, rinunce a pranzi e a passeggiate; insomma, anche nell'ora in cui tutti i funzionari si sparpagliano nei piccoli alloggi degli amici a giocare un burrascoso whist, sorseggiando il tè dai bicchieri insieme con biscotti da un copeco, aspirando il fumo da lunghe pipe, riportando mentre si danno le carte qualche maldicenza dell'alta società, dal che mai e in nessuna situazione può esimersi l'uomo russo, oppure, quando non c'e altro di cui parlare, raccontando l'eterna barzelletta del poliziotto a cui vengono a dire che è stata tagliata la coda al cavallo del monumento di Falconet - insomma anche quando tutti corrono a distrarsi, Akàkij Akakièvič non s'abbandonava ad alcun divertimento. Nessuno poteva dire d'averlo mai veduto a qualche serata. Dopo aver copiato a sazietà, si metteva a letto sorridendo in anticipo al pensiero del domani, di quel che l'indomani Dio gli avrebbe mandato da copiare.
Così trascorreva la sua pacifica esistenza un uomo che con quattrocento rubli di stipendio sapeva essere contento della sua sorte, e avrebbe forse raggiunto così la tarda vecchiaia se la strada della vita non fosse disseminata di vari guai non solamente per i consiglieri titolari, ma anche per quelli segreti, effettivi, di corte e d'ogni altro genere, e persino per quelli che non danno consigli a nessuno e da nessuno ne prendono.
C'è a Pietroburgo un forte nemico di tutti coloro che ricevono quattrocento rubli all'anno di stipendio o giù di lì. Questo nemico non è altri che il gelo pietroburghese, sebbene qualcuno dica che sotto diversi aspetti sia assai salutare. Alle nove del mattino, precisamente nell'ora in cui le strade si riempiono di coloro che si recano ai ministeri, esso comincia a dare pizzicotti così energici e pungenti su tutti i nasi senza distinzione, che i poveri funzionari non sanno più dove infilarli. A quest'ora, quando anche a chi occupa le cariche più elevate duole la fronte per il gelo e vengono le lacrime agli occhi, i poveri consiglieri titolari sono talvolta completamente indifesi. L'unica salvezza consiste nel percorrere di corsa con il leggero paltoncino cinque o sei strade e poi pestare per bene i piedi in anticamera fino a quando tutte le facoltà e le doti naturali necessarie alle mansioni d'ufficio, congelatesi lungo la strada, non si disgelano per bene. Da qualche tempo Akàkij Akakièvič cominciava ad avvertire in modo particolarmente acuto, sulle spalle e sulla schiena, i rigori del gelo, benchè si sforzasse di percorrere al più presto e di corsa il tragitto dalla casa all'ufficio. Alla fine si chiese se il suo cappotto non avesse qualche difetto. Dopo averlo accuratamente esaminato, a casa sua, scoprì che in due o tre posti, precisamente sulla schiena e sulle spalle, esso era diventato leggero come un velo: il panno s'era talmente liso che ci si vedeva attraverso e la fodera si sfilacciava. Bisogna sapere che anche il cappotto di Akàkij Akakièvič era oggetto delle derisioni dei colleghi; gli avevano persino negato il nobile nome di cappotto e lo chiamavano vestaglia. In realtà esso aveva una strana caratteristica: ogni anno il suo colletto diventava sempre più piccolo, perchè serviva per rattoppare le altre parti. Il rattoppo non rivelava alcun'arte da parte del sarto e l'effetto non era bello: sembrava un sacco cadente. Accertata la situazione, Akàkij Akakièvič decise che bisognava portare il cappotto da Petròvič, il sarto, che abitava al quarto piano di una scala di servizio e, nonostante un occhio storto e la faccia tutta butterata, si occupava con una certa abilità della riparazione d'ogni sorta di pantaloni e di frac impiegatizi; ciò, si capisce, quand'era in stato di sobrietà e non cullava in testa qualche altra impresa. Di questo sarto naturalmente non occorrerebbe parlare molto, ma, già che si usa in ogni racconto delineare compiutamente il carattere d'ogni personaggio, non c'è nulla da fare, dateci qui pure Petròvič. In un primo tempo egli si chiamava semplicemente Grigórij ed era un servo della gleba di qualche signore; aveva cominciato a chiamarsi Petròvič da quando aveva ottenuto il riscatto e s'era messo a bere piuttosto forte a ogni festa comandata, all'inizio solo a quelle grandi, e poi, senza distinzione, a tutte le feste della chiesa che fossero segnate con una crocetta sul calendario. Da questo punto di vista egli era fedele ai costumi degli avi e, litigando con la moglie, la chiamava donna mondana e tedesca. Dato che abbiamo accennato alla moglie, sarebbe necessario dir due parole anche su di lei; ma, purtroppo, poco si sa, forse soltanto che Petròvič aveva appunto una moglie, che essa portava addirittura la cuffia e non il fazzoletto in testa, ma d'esser bella, a quanto pare, non poteva vantarsi, o almeno, incontrandola, solamente i soldati della guardia sbirciavano sotto la sua cuffia, arricciandosi i baffi ed emettendo un suono tutto speciale.
Arrampicandosi su per la scala che portava da Petròvič e che, ad esser giusti, era interamente ricoperta d'acqua di risciacquatura e intrisa di quell'odore d'alcool che brucia gli occhi e, com'è noto, è presente in tutte le scale di servizio delle case di Pietroburgo, arrampicandosi dunque su per la scala Akàkij Akakièvič pensava quanto gli avrebbe chiesto Petròvič e mentalmente aveva stabilito di non dargli più di due rubli. La porta era aperta, perchè la padrona di casa, preparando del pesce, aveva fatto tanto fumo in cucina che non si vedevano più nemmeno gli scarafaggi. Akàkij Akakièvič attraversò la cucina senza che la padrona neppure lo notasse ed entrò finalmente nella stanza dove vide Petròvič seduto su una larga tavola di legno grezzo con le gambe ripiegate sotto di sè come un pascià turco. Secondo l'abitudine dei sarti quando sono al lavoro, i piedi erano nudi. La prima cosa che saltò agli occhi di Akàkij Akakièvič fu l'alluce, che egli conosceva assai bene, con un'unghia deformata, grossa e robusta come il guscio d'una tartaruga. Al collo di Petròvič pendevano numerosi fili di seta e sulle ginocchia era steso un cencio. Erano già almeno tre minuti che egli tentava d'infilare il filo nella cruna dell'ago, non ci azzeccava, e perciò era molto arrabbiato con l'oscurità e anche con il filo, e brontolava a mezza voce:
«Non entra, barbaro; m'hai divorato, razza di farabutto!»
Ad Akàkij Akakièvič dispiacque d'essere arrivato proprio in un momento in cui Petròvič era infuriato: a lui piaceva ordinare qualcosa a Petròvič quando quest'ultimo era già un po' brillo o, come si esprimeva la moglie, «s'era abboffato di grappa, diavolo guercio». In quello stato di solito Petròvič cedeva di buon grado e accettava tutto, e ogni volta persino s'inchinava e ringraziava. Poi, è vero, arrivava la moglie, piangendo che il marito era ubriaco e perciò aveva chiesto troppo poco, ma di solito si aggiungeva un grivennik e tutto andava a posto. Adesso invece Petròvič sembrava in perfetto stato di sobrietà e perciò duro, taciturno e pronto a esigere chissà quale prezzo. Akàkij Akakièvič capì questo e, come si dice, avrebbe voluto quasi quasi far marcia indietro, ma ormai la faccenda era avviata. Petròvič strizzò verso di lui molto attentamente il suo unico occhio e Akàkij Akakièvič senza volerlo mormorò:
«Buon giorno, Petròvič!»
«Buona salute, signoria,» disse Petrovič e fissò l'occhio sulle mani di Akàkij Akakièvič, per vedere che razza di preda avesse portato con sè.
«E io, ecco, per te, Petròvič, questo...»
Bisogna sapere che Akàkij Akakièvič s'esprimeva principalmente con preposizioni, con avverbi, insomma con particelle che non hanno assolutamente alcun significato. Se poi la questione era imbarazzante, aveva anche l'abitudine di non terminare affatto la frase, tanto che spesso, avendo cominciato con le parole: «ecco, davvero, assolutamente quello...» poi non seguiva più nulla e lui stesso si dimenticava del resto, credendo d'aver già detto tutto.
«Che razza di roba è?» disse Petròvič, mentre squadrava col suo unico occhio l'uniforme di Akàkij Akakièvič dal colletto alle maniche, alla schiena, alle falde, alle asole, roba che però gli era tutta già ben nota perchè lavoro suo. Questa è l'abitudine dei sarti; questa è la prima cosa che fanno nel vedervi.
«E io, ecco, che cosa, Petròvič... il cappotto, già, il panno... ecco vedi, negli altri posti regge bene, s'è un po' impolverato e sembra vecchio, ma invece è nuovo, solo che in un posto è un poco così.... sulla schiena, e poi anche su una spalla s'è un poco consumato; sì, ecco, su questa spalla un po'... ecco tutto. E non c'è tanto lavoro...»
Petròvič prese la «vestaglia», e la distese sulla tavola, la esaminò a lungo, scosse la testa e allungò la mano verso la finestra per prendere la sua tabacchiera rotonda con il ritratto di un generale, quale precisamente non si sa, perchè il punto dove si trovava la faccia era stato sfondato dal dito e poi rattoppato con un quadratino di carta incollata. Annusato il tabacco, Petròvič allargò la «vestaglia» fra le mani e la esaminò controluce e di nuovo scosse la testa. Poi la rovesciò dalla parte della fodera e di nuovo scosse la testa, di nuovo levò il coperchio con la carta incollata sopra il generale e, riempitosi il naso di tabacco, chiuse la tabacchiera, la ripose e finalmente disse:
«No, non si può riparare: è in cattivo stato!»
A queste parole il cuore di Akàkij Akakièvič ebbe un balzo.
«Come non si può, Petròvič?» disse con voce quasi supplichevole, da bambino, «è consumato soltanto sulle spalle, tu devi pur avere dei pezzi di stoffa da metterci...»
«Certo, i pezzi si possono trovare, i pezzi si trovano,» disse Petròvič, «ma è cucirli che non si può: è roba completamente marcia, come la tocchi con l'ago, ti si disfa in mano.»
«Che si disfi pure, tu subito ci metti una pezza.»
«Ma non c'è dove poggiarle le pezze, non c'è presa, è troppo logoro ormai. Non è panno questo, ma gloria: come soffia un po' di vento vola via.»
«E tu appunto rinforzalo. Come sarebbe a dire, così, davvero, questo!...»
«No,» disse deciso Petròvič, «non si può far nulla. È una brutta faccenda. Meglio, piuttosto, appena verrà il freddo dell'inverno, che ve ne facciate delle pezze per i piedi, perchè la calza non tiene abbastanza caldo. Sono stati i tedeschi a inventarla per farci più soldi (appena c'era il modo, a Petròvič piaceva tirare una frecciata contro i tedeschi), e di cappotto dovrete farvene uno nuovo.»
Alla parola «nuovo» Akàkij Akakièvič si sentì annebbiare la vista e tutto quello che era nella stanza cominciò a confondersi. Vedeva chiaramente soltanto il generale con la faccia coperta dal pezzetto di carta sul coperchio della tabacchiera di Petròvič.
«Come sarebbe, nuovo?» disse, sempre sentendosi come in un sogno. «Ma io, per questo, i soldi non li ho.»
«Sì, nuovo,» disse con crudele flemma Petròvič.
«Be', e se per caso uno nuovo, cosa, quanto...»
«Ossia, quanto costerà?»
«Sì.»
«Eh, bisognerà metterci centocinquanta rubli o poco più,» disse Petròvič stringendo significativamente le labbra.
A lui piaceva molto far effetto, gli piaceva colpire forte la gente di primo acchito e poi guardare di traverso che faccia facesse la persona ch'egli aveva colpito con le sue frasi.
«Centocinquanta rubli un cappotto!» gridò il povero Akàkij Akakièvič e forse gridò per la prima volta dalla sua nascita, perchè s'era sempre distinto per il tono sommesso della voce.
«Sissignore,» disse Petròvič, «e poi si tratta di vedere quale cappotto. Se si vuole della martora sul collo e magari il cappuccio con la fodera di seta, allora si va sui ducento.»
«Petròvič, ti prego,» disse Akàkij Akakièvič con voce supplichevole senza sentire e senza nemmeno cercare di sentire le parole a effetto dette da Petròvič, «riparalo in qualche maniera in modo che mi serva ancora un poco.»
«Ma no, sarebbe come buttar via il lavoro e spendere i soldi per niente,» disse Petròvič. Queste parole, annientarono del tutto Akàkij Akakièvič. Quanto a Petròvič, dopo che quest'ultimo se ne fu andato, rimase ancora per un bel pezzo in piedi con le labbra significativamente serrate, senza rimettersi al lavoro, contento di non essersi umiliato e di non aver tradito l'arte di sarto.
Uscito in strada, Akàkij Akakièvič era ancora trasognato.
«Bella storia, bella,» diceva a se stesso, «davvero non l'avrei mai pensato che sarebbe andata a finire così...» e poi, dopo un certo silenzio, aggiunse: «Sicchè sarebbe così! In fin dei conti ecco cos'è venuto fuori, e io davvero non potevo supporre che fosse così.»
A questa constatazione seguì una lunga pausa. Poi egli esclamò:
«Sicchè, dunque, sarebbe così! Guarda che roba, dico, inaspettata, già... questa, proprio, no... guarda che roba!»
Detto questo, invece di andare a casa, si avviò senza rendersene conto esattamente dalla parte opposta. Per strada uno spazzacamino coperto di fuliggine l'urtò di fianco e gli annerì tutta una spalla; un'intera secchia di calce si riversò sopra di lui dalla cima di una casa in costruzione. Egli non si accorse di nulla e soltanto più tardi, quando si scontrò con una guardia che, posata vicino a sè la sua alabarda, scuoteva un corno per versarne il tabacco sulla palma callosa, soltanto allora ritornò un poco in sè e del resto solo perchè la guardia disse:
«Che hai da sbattermi sul muso, non hai il tuo marsciapiede?»
Questo lo costrinse a guardarsi in giro e a svoltare verso casa. Qui finalmente cominciò a raccogliere i pensieri, vide nella sua vera luce la propria situazione, e si mise a parlare con se stesso non più in modo sconclusionato, ma ragionevolmente e francamente come con un amico giudizioso con il quale si può parlare di ciò che più ci sta a cuore.
«Ebbene, no,» diceva Akàkij Akakièvič, «con Petròvič ora non si può discutere: adesso lui, quello... si vede che la moglie gliel'ha suonate. Meglio che vada da lui domenica mattina: dopo la vigilia del sabato avrà l'occhio appannato e sarà mezzo insonnolito, sicchè avrà bisogno di smaltire la sbornia, la moglie soldi non gliene darà, e io allora proprio in quel momento gli metto un grivènnik nella mano, e lui sarà più trattabile e allora pure il cappotto, già quello...»
Così ragionava con se stesso Akàkij Akakièvič; si fece animo e attese la prima domenica. Visto da lontano che la moglie di Petròvič era uscita di casa per andare in qualche posto, se ne andò dritto da lui. Petròvič, appunto, dopo il sabato, aveva l'occhio assai annebbiato, la testa gli penzolava verso il pavimento ed era tutto insonnolito; ma, nonostante ciò, non appena seppe di che cosa si trattava, fu come se qualche diavolo l'avesse scottato.
«È impossibile,» disse, «dovrete ordinarne uno nuovo.»
Fu proprio a questo punto che Akàkij Akakièvič gli ficcò in mano un grivènnik.
«Vi ringrazio, signoria, mi rifarò un poco alla vostra salute,» disse Petròvič, «ma, quanto al cappotto, dovete lasciar perdere: non è più buono neanche a farci stracci. Vi farò a pennello un cappotto nuovo, state tranquillo.»
Akàkij Akakièvič ricominciò a chiedere che lo riparasse, ma Petròvič non stette a sentirlo e disse:
«Uno nuovo ve lo faccio a pennello, su questo ci potete contare, ci metterò tutta la mia attenzione. Si può fare anche come va di moda adesso, il colletto che s'abbottona con zampine d'argento placcato.»
Fu qui appunto che Akàkij Akakièvič vide che d'un cappotto nuovo non si poteva fare a meno e si perse completamente d'animo. Come farlo in effetti, con che cosa, con quali soldi? Certo, in parte si poteva contare su una futura gratifica per le feste, ma quel soldi erano già stati da tempo destinati e distribuiti. C'era bisogno di farsi dei pantaloni nuovi, di pagare al calzolaio un vecchio debito per l'applicazione di nuove tomaie a vecchi stivali, e poi bisognava ordinare alla camiciaia tre camicie, nonchè due capi di quella biancheria che non sta bene nominare sul libri, insomma: tutti i soldi dovevano andarsene, e se anche il direttore fosse stato tanto misericordioso da fissargli quarantacinque o cinquanta rubli di gratifica invece di quaranta sarebbe rimasta comunque una sciocchezza, una goccia nel mare rispetto al capitale che ci voleva per il cappotto. Sebbene egli sapesse che Petròvič aveva il ghiribizzo di sputar fuori spropositi di prezzi che sa il diavolo, tanto che persino sua moglie non poteva trattenersi dal gridare: «E che, sei impazzito, specie di cretino! A volte prendi il lavoro per niente, e adesso ti piglia la mattana di chiedere quello che non costi neanche tu!...» Sebbene, dunque, sapesse che Petròvič gliel'avrebbe fatto anche per ottanta rubli, dove prenderli, però, quegli ottanta rubli? La metà ancora si sarebbe potuta trovare: la metà sarebbe anche venuta fuori; forse anche un po' di più, ma dove prenderla l'altra metà?... Ma prima il lettore deve sapere da dove poteva venir fuori la metà della somma. Akàkij Akakièvič aveva l'aditudine di mettere, per ogni rublo che spendeva, un centesimo in una cassettina chiusa a chiave, con una fessura intagliata nel coperchio appunto per infilarci i soldini. Allo scadere d'ogni semestre egli controllava gli spiccioli che vi si erano accumulati e li cambiava in monete d'argento. Così continuava a fare da tempo, e ormai, dopo diversi anni, la somma era arrivata a più di quaranta rubli. Sicchè una metà l'aveva in mano; ma dove prendere l'altra metà? Dove prendere gli altri quaranta rubli? Akàkij Akakièvič meditò, meditò, e decise che non c'era altro da fare che ridurre, per almeno un anno, le spese abituali: eliminare l'uso del tè la sera, non accendere la candela dopo buio, e se c'era qualcosa da fare, andare nella camera della padrona a lavorare con la sua candela; camminando per strada, procedere più leggermente e cautamente possibile sui sassi e sul selciato, quasi in punta di piedi, per non consumare prima del tempo le suole; dare assai raramente da lavare la biancheria alla lavandaia e, perchè non si consumasse, levarsela subito ogni volta che tornava a casa e restare soltanto con la veste da camera di cotonina, molto vecchia, ma abbastanza risparmiata dal tempo.
Bisogna dire la verità: dapprima gli fu difficile abituarsi a simili limitazioni, ma poi in qualche modo esse entrarono nella consuetudine e tutto andò benissimo; si era persino perfettamente allenato a digiunare la sera, ma in compenso si nutriva spiritualmente fantasticando all'idea del futuro cappotto. Da quel momento parve che la sua stessa esistenza si facesse in un certo senso più piena, come se si fosse sposato, come se qualche altra persona vivesse con lui, come se non fosse più solo, ma una gradita compagna avesse acconsentito a percorrere al suo fianco il cammino della vita, e quest'amica non era altri, appunto, che quel cappotto bene imbottito, con una robusta fodera che non si sarebbe consumata. Egli diventò anche più vivace, persino più fermo di carattere, come un uomo che s'è ormai stabilito e fissato uno scopo. Dalla sua faccia e dai suoi atti scomparvero il dubbio, l'indecisione, insomma, tutti gli aspetti oscillanti e indeterminati. Talvolta nei suoi occhi brillava una fiamma, nella testa gli balenavano persino i pensieri più bruschi e arditi: perchè, proprio, non mettere della martora sul colletto? Preso da tali riflessioni, poco mancava che finisse col distrarsi. Una volta, copiando una carta, fu lì lì per fare un errore, tanto che poi esclamò quasi ad alta voce: «Uh!» e si fece il segno della croce. Ogni mese andava a trovare almeno una volta Petròvič per parlare del cappotto: dove fosse meglio comprare la stoffa, e a quale prezzo, e ogni volta tornava a casa contento, anche se un po' preoccupato, pensando che alla fine doveva pur venire il momento in cui avrebbero acquistato tutto il necessario e il cappotto sarebbe stato fatto. La faccenda andò anche più in fretta di quanto lui s'aspettasse. Smentendo i suoi sogni più arditi, il direttore non assegnò ad Akàkij Akakièvič quaranta o quarantacinque rubli, ma addirittura sessanta: sia che presentisse che ad Akàkij Akakièvič occorreva un cappotto, sia che la cosa accadesse da sè, fatto sta che grazie a ciò egli si trovò venti rubli in più. Questa circostanza accelerò i tempi. Ancora due o tre mesi di fame non troppo rigida, e Akàkij Akakièvič si trovò ad aver raccolto esattamente ottanta rubli. Il suo cuore, in genere assai tranquillo, cominciò a battere. Subito, il giorno stesso, egli si recò in compagnia di Petròvič a fare il giro dei negozi. Acquistarono dell'ottima stoffa, e non era poi tanto difficile, dato che ci avevano pensato già sei mesi prima ed era raro il mese in cui non fossero andati nei negozi per informarsi sui prezzi; lo stesso Petròvič disse che stoffa migliore non ce n'era. Per la fondera scelsero del calicò, ma così buono e robusto che, secondo le parole di Petròvič, era anche migliore della seta e persino più bello e più lucido. La martora non la comprarono, perchè, appunto, era cara, e al suo posto scelsero del miglior gatto che si trovasse in negozio, un gatto che da lontano si poteva sempre scambiare per martora. Petròvič si diede da fare intorno al cappotto due settimane in tutto, perchè c'era molto lavoro d'impuntura, altrimenti sarebbe stato pronto prima. Per il lavoro Petròvič prese dodici rubli, meno era proprio impossibile: tutto era stato cucito con filo di seta, a doppia costura corta, e su ogni cucitura Petròvič era poi passato con i propri denti, lasciandovi i segni. Fu un... è difficile dire che giorno preciso, ma probabilmente fu il giorno più solenne della vita di Akàkij Akakièvič, quello in cui Petròvič gli portò finalmente il cappotto. Lo portò di mattina, proprio un attimo prima che lui uscisse per andare al ministero. Mai in un altro momento il cappotto sarebbe venuto così a proposito, perchè il freddo aveva cominciato a farsi sentire e minacciava di aumentare ancora. Petròvič si presentò con il cappotto, come s'addice a ogni buon sarto. Sulla sua faccia era dipinta un'espressione così compresa come Akàkij Akakièvič non gli aveva mai visto prima. Pareva che egli sentisse pienamente d'aver fatto un'opera non di poco conto e che di colpo avesse avvertito in sè l'abisso che separa i sarti buoni soltanto ad applicare fodere e a fare riparazioni, da quelli che confezionano ex nervo. Tirò dunque fuori il cappotto dal fazzolettone da naso in cui l'aveva avvolto; il fazzolettone era fresco di bucato, sicchè lui poi lo ripiegò e se lo mise in tasca per usarlo. Tirato fuori il cappotto, lo guardò con molto orgoglio e, reggendolo con entrambe le mani, lo posò abilmente sulle spalle di Akàkij Akakièvič; poi lo distese e glielo aggiustò da dietro verso il basso; quindi lo drappeggiò addosso ad Akàkij Akakièvič lasciando sbottonato qualche bottone. Akàkij Akakièvič, da uomo esperto, volle provarlo nelle maniche; Petròvič l'aiutò ad infilare anche le maniche: andavano bene. Insomma, risultò che il cappotto era perfettamente e precisamente riuscito. In quest'occasione Petròvič non tralasciò di dire che lui aveva preso così poco soltanto perchè abitava in una viuzza e non aveva insegna e per di più conosceva da tempo Akàkij Akakièvič; giacchè sulla Prospettiva Nevskij solo per il lavoro gli avrebbero preso settantacinque rubli. Akàkij Akakièvič rifiutò di mettersi a ragionare di queste cose con Petròvič; del resto l'impaurivano già le forti semine con cui a Petròvič piaceva gettar polvere negli occhi. Pagò il conto, lo ringraziò e immediatamente uscì col cappotto nuovo per andare al ministero. Petròvič uscì dietro di lui e, fermo sulla strada, guardò ancora a lungo da lontano il cappotto; poi prese apposta da un'altra parte per correre di nuovo sulla strada, aggirandola per un vicolo laterale, così da poter guardare ancora una volta il suo cappotto da un altro punto d'osservazione, ossia proprio di faccia. Frattanto Akàkij Akakièvič camminava nella più lieta disposizione di tutti i suoi sentimenti. Ogni minuto, ogni istante sentiva d'avere sulle spalle un cappotto nuovo e varie volte persino sorrise d'interna soddisfazione. In realtà c'erano due vantaggi: uno, che stava al caldo e, secondo, che faceva figura. Della strada percorsa non si accorse affatto e si trovò al ministero senza rendersene conto; quando in anticamera si tolse il cappotto, lo esaminò tutt'attorno e l'affidò alla particolare sorveglianza dell'usciere.
Non si sa come, tutti, al ministero, vennero subito a sapere che Akàkij Akakièvič aveva un cappotto nuovo e che la «vestaglia» non esisteva più. E sull'istante, tutti accorsero in anticamera a vedere il nuovo cappotto di Akàkij Akakièvič. Cominciarono a felicitarsi con lui, a complimentarlo, tanto che egli dapprima si limitò a sorridere, ma poi provò persino vergogna. Infine, quando tutti, attorniandolo, cominciarono a dire che bisognava bagnare il cappotto nuovo e che, quanto meno, egli doveva dare una cena, Akàkij Akakièvič si smarrì completamente, non sapendo più come comportarsi, che cosa rispondere e come sottrarsi con un pretesto. Già da qualche minuto, tutto rosso in faccia, aveva cominciato ad assicurare piuttosto ingenuamente i colleghi che non si trattava affatto d'un cappotto nuovo, che era solo così, che era un cappotto vecchio. Finalmente uno dei funzionari, addirittura un vice capufficio, probabilmente per far vedere che non era un superbo e trattava anche con gl'inferiori, disse: «Faremo così, darò io la serata invece di Akàkij Akakièvič e vi invito oggi da me per il tè; come a farlo apposta, infatti, oggi è il mio onomastico.»
Naturalmente i funzionari fecero gli auguri al vice capufficio e accettarono volentieri la proposta. Akàkij Akakièvič cominciò con il dire che non poteva, ma tutti si misero a gridare che era una scortesia, che era una vera vergogna, un'ignominia, e lui non potè rifiutare. Ripensandoci, del resto, la cosa gli fece piacere, dato che in questo modo avrebbe avuto l'occasione di recarsi anche alla serata con il cappotto nuovo. Tutta quella giornata fu per Akàkij Akakièvič come una grande festa solenne. Ritornò a casa nel più felice stato d'animo, si levò il cappotto e lo appese con cura alla parete dopo averne ammirato ancora una volta la stoffa e la fodera, e poi tirò apposta fuori, per fare un paragone, la vecchia «vestaglia» che andava completamente a pezzi. La guardò e scoppiò a ridere da solo: che enorme differenza! E anche dopo, a pranzo, continuò a lungo a sorridere non appena gli venivano in mente le condizioni in cui si trovava la «vestaglia». Pranzò allegramente e dopo pranzo non scrisse nulla, nessun incartamento, ma fece un po' il sibarita sul letto finchè non imbrunì. Poi, senza tirarla troppo in lungo, si vestì, si infilò il cappotto e uscì in strada. Dove precisamente abitasse il funzionario che l'aveva invitato purtroppo non possiamo dirlo: la memoria qui ci tradisce e tutto ciò che c'è a Pietroburgo, tutte le vie e le case si sono talmente confuse e mescolate nella nostra testa, che è molto difficile tirarne fuori qualcosa di coerente. Comunque fosse, è però certo che il funzionario abitava nella parte migliore della città, dunque non troppo vicino ad Akàkij Akakièvič. Dapprima Akàkij Akakièvič dovette percorrere certe vie deserte e debolmente illuminate, ma, man mano che si avvicinava alla casa del funzionario, le strade diventavano più vive, più popolate e meglio illuminate. I passanti cominciarono a essere più frequenti, cominciarono a vedersi anche signore ben vestite, gli uomini avevano colletti di castoro, s'incontravano più di rado i vetturini con le loro slitte a sbarre di legno tempestate di chiodini dorati; al contrario, si vedevano di continuo cocchieri con veloci puledri e berretti di velluto color lampone, e slitte laccate con coperte di pelli d'orso; sulla strada passavano al volo con le ruote che stridevano sulla neve, carrozze con la serpa tutta adorna.
Akàkij Akakièvič guardava tutto questo come una novità. Da parecchi anni egli non usciva di sera. A un certo punto si fermò con curiosità davanti alla vetrina illuminata d'un negozio per guardare un quadro in cui era raffigurata una bella donna che si toglieva una scarpa esibendo così tutta la gamba che non era affatto brutta, mentre alle sue spalle, dalla porta di una stanza, si affacciava la testa di un uomo con i basettoni e un bel pizzo alla spagnola. Akàkij Akakièvič scosse la testa e sorrise, ma poi proseguì per la sua strada. Perchè sorrise? Forse perchè aveva visto una cosa che ignorava del tutto, ma per la quale ognuno conserva tuttavia un certo fiuto, o perchè, come molti altri funzionari, aveva pensato: «Ah, questi francesi! Non c'è che dire, non vogliono che questo...» Forse però non pensò nulla del genere: non si può infatti entrare nell'anima d'un uomo e sapere tutto ciò che pensa. Infine raggiunse la casa in cui abitava il vicecapufficio. Il vicecapufficio viveva con agio: sulle scale splendeva un lampione, l'appartamento era al secondo piano. Entrato in anticamera, Akàkij Akakièvič vide sul pavimento intere file di soprascarpe. Fra di esse, al centro della stanza, c'era un samovàr che rumoreggiava ed emetteva nugoli di vapore. Alle pareti erano appesi cappotti e mantelli, alcuni dei quali avevano persino i colli di castoro o i risvolti di velluto. Di là della parete si udivano rumori e voci, che si fecero di colpo distinte e sonore quando si aprì la porta e uscì un domestico con un vassoio pieno di bicchieri vuoti, di un bricco per la panna e d'un cestino di biscotti. Evidentemente gli impiegati erano lì da un pezzo e avevano già bevuto il primo bicchiere di tè. Akàkij Akakièvič, appeso il proprio cappotto, entrò nella stanza e subito gli apparvero i funzionari, le pipe, i tavolini per giocare a carte, mentre gli giungeva alle orecchie un chiacchiericcio fitto che si levava da tutte le parti, e il rumore delle sedie smosse. Egli si fermò goffamente in mezzo alla stanza cercando, sforzandosi di pensare che cosa dovesse fare. Ma già l'avevano notato, accolto con un grido e tutti immediatamente si recarono in anticamera a contemplare un'altra volta il suo cappotto. Akàkij Akakièvič benchè un poco confuso, tuttavia, essendo una persona cordiale, era anche rallegrato dal fatto che lodassero il suo cappotto. Poi, si capisce, tutti abbandonarono lui e il suo cappotto, e come si conviene, si rivolsero ai tavolini destinati al whist. Il frastuono, il chiacchiericcio, e la folla di gente, tutto questo era in un certo senso insolito per Akàkij Akakièvič. Egli non sapeva proprio come comportarsi, dove mettere le mani, le gambe e l'intera persona; si sedette infine accanto ad alcuni giocatori, guardò le carte, sbirciò in faccia l'uno e l'altro e, dopo un certo tempo, cominciò a sbadigliare e a sentire che si annoiava, tanto più che già da un pezzo era venuta l'ora in cui d'abitudine andava a dormire. Voleva salutare il padrone di casa, ma non glielo permisero, dicendo che bisognava assolutamente bere una coppa di champagne in onore del nuovo indumento. Un'ora dopo servirono la cena, consistente in insalata russa, vitello freddo, patè. pasticcini e champagne. Costrinsero Akàkij Akakièvič a bere due coppe, dopo le quali egli sentì che nella stanza c'era adesso più allegria, senza però riuscire a dimenticare che era già mezzanotte e che già da un pezzo avrebbe dovuto essere a casa. Affinchè in qualche modo al padrone di casa non venisse in mente di trattenerlo, sgattaiolò alla chetichella dalla stanza, cercò in anticamera il cappotto che non senza rammarico trovò per terra, lo scosse, ne tolse ogni granello di polvere, se lo infilò e scese le scale uscendo sulla strada. C'era ancora luce. Erano ancora aperte certe bottegucce, ritrovi insostituibili di servitori e gente d'ogni genere; altre che erano chiuse mostravano tuttavia una lunga striscia di luce lungo tutta la fessura della porta, il che significava che non erano ancora prive di frequentatori e, probabilmente, domestiche e domestici erano ancora lì a scambiarsi le loro ciance e chiacchiere mentre i loro padroni si chiedevano perplessi dove diavolo potessero essere. Akàkij Akakièvič camminava in gaia disposizione di spirito e una volta si mise persino, chissà perchè, a correre dietro a una dama che gli passò accanto in un lampo, muovendosi in tutto il corpo in modo singolare. Si arrestò però subito e si rimise a camminare come prima, piano piano, meravigliandosi di quella corsa a cui era stato spinto chissà da cosa. Ben presto davanti a lui si allungarono quelle viuzze deserte che già poco allegre di giorno, di notte sono ancora più remote e solitarie: i lampioni accesi erano rari, perchè probabilmente qui si distribuiva meno olio; cominciarono le case di legno, le palizzate, non un'anima viva; solo la neve scintillava sulle strade, e basse stamberghe addormentate nereggiavano tristemente con le imposte chiuse. Egli s'avvicinava al punto dove la via sfociava in una piazza sconfinata, simile a un pauroso deserto, con le sue case appena visibili all'altra estremità.
Lontano, Dio sa dove, baluginava il lumicino d'una gavitta che pareva in capo al mondo. A questo punto la gaiezza di Akàkij Akakièvič diminuì notevolmente. Egli s'inoltrò nella piazza non senza un certo involontario timore, proprio come se il suo cuore presentisse qualcosa di spiacevole. Si guardò indietro e ai lati: intorno a lui c'era come un mare. «No, meglio non guardare,» pensò e continuò a camminare con gli occhi chiusi; quando li riaprì per sapere se fosse vicina la fine della piazza, vide di colpo davanti a sè, quasi a un palmo dal suo naso, alcuni uomini con i baffi, come fossero quei baffi non poteva dirlo. Gli occhi gli si confusero e sentì una fitta al petto.
«Ma questo cappotto è mio!» disse uno di quelli con voce tonante, afferrandolo per il colletto.
Akàkij Akakièvič avrebbe voluto gridare «aiuto!», ma l'altro gli mostrò sotto la bocca un pugno grosso come la testa d'un funzionario dicendo:
«Prova un po' a gridare!»
Akàkij Akakièvič si accorse soltanto che gli toglievano di dosso il cappotto e gli davano una spinta di dietro con il ginocchio; egli cadde bocconi nella neve e non capì più nulla. Dopo alcuni minuti ritornò in sè e si rialzò in piedi, ma ormai non c'era più nessuno. Sentì che lì faceva freddo e che il cappotto non c'era più, fece per gridare, ma pareva che la sua voce non potesse giungere fino all'altro capo della piazza. Disperato, seguitando a gridare, si mise a correre attraverso la piazza, dritto verso la garitta accanto alla quale stava una guardia appoggiata alla sua alabarda e che guardava con curiosità, chiedendosi che razza di demonio stesse correndo verso di lui da lontano gridando in quel modo. Akàkij Akakièvič arrivò fino a lui di corsa e con voce affannata cominciò a urlargli che dormiva e non badava a nulla, non vedeva neppure che stavano rapinando una persona. La guardia rispose che non aveva visto nulla; aveva, sì, visto che l'avevano fermato, in mezzo alla piazza due uomini, ma aveva pensato che fossero suoi amici; e che invece di imprecare inutilmente avrebbe fatto meglio ad andare l'indomani dal commissario e il commissario avrebbe fatto ricerche per trovare chi gli aveva preso il cappotto. Akàkij Akakièvič tornò a casa di corsa tutto sconvolto: i capelli che aveva ancora abbastanza numerosi sulle tempie e sulla nuca erano scompigliati, aveva neve appiccicata ai fianchi, al petto e su tutti i pantaloni. La sua vecchia padrona di casa, sentendo il suo frenetico bussare alla porta, saltò frettolosamente giù dal letto e con una sola scarpa ai piedi corse ad aprire, per pudore tenendosi con una mano la camicia stretta al seno; e quando aprì la porta, fece un passo indietro vedendo Akàkij Akakièvič in quello stato. Quando poi egli le raccontò cos'era successo, giunse le mani e disse che doveva andare direttamente dal commissario distrettuale, che quello del quartiere era un imbroglione, faceva promesse e poi menava per il naso, mentre la miglior cosa era andare direttamente dal commissario distrettuale, che lei tra l'altro conosceva, perchè Anna, la finlandese che prima aveva servito da lei come cuoca, adesso era andata a far la bambinaia da lui, che sovente lo vedeva di persona quando passava accanto alla loro casa e che del resto ogni domenica lui andava in chiesa, era pio, e nello stesso tempo guardava tutti con simpatia e che dunque, era chiaro che doveva essere una brava persona. Dopo aver ascoltato questi consigli, Akàkij Akakièvič si ritirò triste nella sua camera e come vi trascorresse la notte si lascia giudicare a chi può in qualche modo immaginarsi la sua situazione. Il mattino presto si diresse dal commissario distrettuale, ma gli dissero che stava dormendo; ci andò alle dieci e gli dissero ancora che stava dormendo; ci andò alle undici e gli dissero che il commissario non era in casa; ci andò all'ora di pranzo, ma gli scrivani in anticamera rifiutarono di lasciarlo passare e volevano sapere quale affare e quale bisogno l'avessero condotto lì e cosa fosse successo. Sicchè infine Akàkij Akakièvič per una volta in vita sua dovette mostrare del carattere e disse seccamente che doveva vedere il commissario distrettuale in persona, che non osassero non lasciarlo passare, che lui veniva dal ministero per una faccenda di stato, che si sarebbe lagnato di loro con chi di ragione, e allora avrebbero visto. Contro simili argomenti gli scrivani non osarono ribattere, e uno di loro andò a chiamare il commissario. Il commissario ascoltò in un certo modo molto strano il racconto della rapina del cappotto. Invece di rivolgere l'attenzione al punto principale della faccenda, egli si mise a interrogare Akàkij Akakièvič: perchè era rincasato così tardi? non era andato per caso in qualche casa poco perbene? Sicchè Akàkij Akakièvič si confuse completamente e se ne uscì senza nemmeno sapere se l'affare del cappotto avrebbe preso la giusta piega oppure no. Per tutto quel giorno non si fece vedere in ufficio (cosa unica nella sua vita). Il giorno dopo si presentò tutto pallido e con la sua vecchia «vestaglia», che ora appariva ancora più lacrimevole. Il racconto della rapina del cappotto - sebbene alcuni impiegati nemmeno in questo caso si lasciassero sfuggire l'occasione per ridere alle spalle di Akàkij Akakièvič - commosse molti. Su due piedi fu deciso di fare una colletta: ma si raccolse poco, una sciocchezza, perché gli impiegati avevano già speso parecchio sottoscrivendo per un ritratto del direttore e per l'acquisto di un certo libro, in seguito alla proposta del capo sezione, il quale era amico dell'autore, sicchè la somma che venne fuori era proprio ridicola. Ci fu una persona mossa da compassione, che volle aiutare Akàkij Akakièvič almeno con un buon consiglio, e gli disse di non andare dal commissario del quartiere, perchè se anche costui, per guadagnarsi un elogio dei superiori, fosse in qualche modo riuscito a trovare il cappotto, il cappotto sarebbe però rimasto alla polizia se il proprietario non avesse presentato prove legali che esso gli apparteneva, ma che la miglior cosa era di rivolgersi a un certo personaggio importante, perchè il personaggio importante, scrivendo e mettendosi in contatto con chi di dovere, poteva far si che la cosa procedesse con miglior esito. Akàkij Akakièvič decise di andare dal personaggio importante. Quali precisamente fossero e in che cosa consistessero le mansioni del personaggio importante è tuttora ignoto. Bisogna sapere che quel personaggio importante era diventato tale solo da poco tempo, mentre fino allora era stato un personaggio senza importanza. Del resto, rispetto ad altre cariche ben più importanti, la sua non lo era poi molto, anche se nella cerchia più ristretta dei suoi colleghi era tenuto in grande considerazione. Comunque egli cercava di prevalere con vari mezzi, e precisamente: aveva stabilito che i funzionari di grado inferiore dovessero ossequiarlo già sulle scale allorchè egli arrivava in ufficio; che nessuno ardisse presentarsi direttamente a lui, ma tutto procedesse secondo la gerarchia più rigorosa: il registratore di collegio riferisse al segretario provinciale, il segretario provinciale a quello titolare o a chi per lui, e soltanto per questo tramite la pratica arrivasse fino a lui. A tal punto nella santa Russia tutto è infetto dall'imitazione: tutti si beffano dei loro capi e poi li scimmiottano. Si dice persino che un certo consigliere titolare, diventato direttore di un piccolo ufficio distaccato, immediatamente si fece fabbricare con un tramezzo una stanzetta, che nominò «stanza dalle udienze», e mise alla porta un usciere con il colletto rosso e i galloni che impugnava la maniglia della porta e l'apriva a tutti quelli che arrivavano, sebbene nella «stanza delle udienze» ci entrasse a malapena una normale scrivania. I modi e i costumi dell'importante personaggio erano austeri e maestosi, ma non molto complicati. «Severità, severità e... severità,» diceva egli di solito, e dicendo questa parola egli era solito guardare severamente in faccia il suo interlocutore. Comportamento, del resto, del tutto superfluo, in quanto i funzionari - una decina - che costituivano tutto il meccanismo burocratico dell'ufficio, erano già in preda al dovuto terrore: scorgendolo da lontano, essi lasciavano immediatamente le loro occupazioni e aspettavano in piedi sull'attenti che egli avesse attraversato la stanza. La sua conversazione abituale con gli inferiori era improntata a severità e consisteva quasi soltanto di tre frasi: «Come osate? Sapete con chi state parlando? Capite chi vi sta davanti?» In cuor suo, era anche un brav'uomo, cordiale con i colleghi, servizievole, ma quando aveva ricevuto il grado di generale, ne era rimasto sconvolto, aveva perduto l'orientamento e non sapeva più che cosa fare. Quando si trovava con un suo pari, era ancora un uomo come si deve, un uomo perbene, sotto molti aspetti un uomo anche intelligente; ma appena capitava in una società di persone che fossero solo d'un grado inferiori a lui, mutava completamente; taceva, e la sua posizione era tanto più pensosa in quanto lui stesso sentiva che avrebbe potuto trascorrere molto meglio il proprio tempo. Nei suoi occhi a volte si leggeva il desiderio di unirsi a questa o quella conversazione o inserirsi in una cerchia interessante, ma lo fermava il seguente pensiero: «Non sarà conceder troppo, da parte mia? non sarà troppo familiare? non diminuirà la mia importanza?» Così, per colpa di tali ragionamenti se ne stava eternamente in silenzio o pronunciava di rado qualche monosillabo: in tal modo si era acquistata la fama di persona noiosissima.
Appunto a questo importante personaggio si presentò il nostro Akàkij Akakièvič e gli si presentò nel momento meno opportuno per se stesso, benchè a proposito per l'importante personaggio. Quest'ultimo si trovava nel suo gabinetto e conversava d'ottimo umore con un suo vecchio conoscente e compagno d'infanzia giunto da poco e che da vari anni non vedeva. In quel momento annunciarono che era arrivato un certo Bašmaèkìn. «Chi è?» domandò egli con foga. «Un funzionario,» gli risposero. «Ah, può aspettare, adesso non è il momento,» disse l'importante personaggio. Qui occorre dire che l'importante personaggio aveva perfettamente mentito: tempo ne aveva, perchè lui e l'amico da un pezzo avevano esaurito gli argomenti, da un pezzo alternavano la conversazione con lunghi silenzi, dandosi solo ogni tanto dei colpetti sulle cosce e dicendo: «Così dunque, Ivàn Abràmovič!» «Eh già, Stepàn Varlamòvič!» Nonostante tutto questo egli ordinò lo stesso di fare attendere il funzionario per far vedere all'amico, il quale da tempo non prestava più servizio e se ne stava a casa sua in campagna, quanto tempo i funzionari dovessero attendere nella sua anticamera. Finalmente, dopo aver chiacchierato, e ancor più taciuto a sazietà, e fumato un sigaro nelle comodissime poltrone con lo schienale ribaltabile, egli parve ricordarsi a un tratto di qualcosa e disse al segretario che stava fermo sulla soglia con gli incartamenti per un rapporto:
«Ah, mi sembra che di là ci sia un funzionario; ditegli che può entrare.»
Dopo aver visto l'aria dimessa di Akàkij Akakièvič e la sua vecchia uniforme, gli si rivolse di scatto dicendo:
«Che cosa desiderate?» con una voce imperiosa e dura, che aveva appositamente provato nella sua stanza, solo davanti allo specchio, fin da una settimana prima d'aver ricevuto il suo attuale posto e il grado di generale.
Akàkij Akakièvič era già in anticipo intimidito come si conveniva al caso; ora si turbò ancor più e, come potè, per quanto glielo permise la scioltezza della lingua, spiegò, intercalando ancor più del solito la parola «ecco», che si trattava dunque d'un cappotto proprio nuovo e che ecco, era stato rapinato nel modo più disumano, e che si rivolgeva a lui affinchè, mediante la sua intercessione, ecco, lui si mettesse in contatto scritto con il capo della polizia, o con qualcun altro, e ritrovassero il cappotto. Chissà perchè, l'atteggiamento di Bašmaèìn parve troppo familiare al generale.
«Ma voi, egregio signore,» disse di nuovo in modo imperioso, «non conoscete la procedura? Dove si vuole andare a finire? Non sapete come si sbrigano le pratiche? Per una cosa simile prima avreste dovuto presentare domanda alla cancelleria; essa sarebbe passata al capufficio e al capo sezione, poi sarebbe stata trasmessa al segretario, e il segretario infine l'avrebbe portata a me...»
«Ma, vostra eccellenza,» disse Akàkij Akakièvič sforzandosi di raccogliere tutta la presenza di spirito che gli restava e sentendo nello stesso tempo che sudava in modo spaventoso, «io, vostra eccellenza, ho ardito disturbarvi, perchè i segretari, ecco... sono gente di cui non ci si può fidare...»
«Cosa, cosa, cosa?» disse l'importante personaggio, «chi vi ha dato tanto ardire? Chi vi ha messo in testa queste idee? Che specie di ribellione s'è diffusa fra i giovani contro i capi e i superiori!»
A quanto pare l'importante personaggio non aveva notato che Akàkij Akakièvič aveva già oltrepassato la cinquantina. Sicchè, se mai lo si poteva chiamar giovane, era forse soltanto in confronto a chi aveva settant'anni.
«Ma sapete voi con chi state parlando? Capite chi vi sta davanti? Lo capite questo, lo capite? È a voi che lo domando.»
A questo punto egli battè il piede, portando la voce a una nota così alta che si sarebbe spaventato non soltanto Akàkij Akakièvič. Quanto a lui, Akàkij Akakièvič rimase tramortito, barcollò, cominciò a tremare in tutto il corpo e non ebbe più la forza di stare in piedi: se gli uscieri non fossero accorsi a sorreggerlo, sarebbe stramazzato sul pavimento; lo portarono fuori che era quasi esanime. L'importante personaggio, intanto, contento che l'effetto avesse persino superato le sue aspettative e completamente tranquillizzato dal pensiero che le sue parole potessero persino far perdere i sensi a una persona, sbirciò di traverso l'amico per sapere come considerasse la cosa e, non senza soddisfazione, vide che il suo amico si trovava in uno stato d'animo alquanto incerto e cominciava anche lui, da parte sua, a provar paura.
Akàkij Akakièvič non riuscì mai più a ricordare come fosse sceso dalle scale e fosse uscito in strada. Non si sentiva più nè braccia nè gambe. Mai in vita sua era stato così orribilmente strapazzato da un generale, per di più estraneo. Camminava a bocca aperta in mezzo alla tormenta che sibilava nelle strade, scivolava giù dal marciapiede; il vento, come di consueto a Pietroburgo, lo assaliva da tutte e quattro le direzioni, da tutti i vicoli. Improvvisamente sentì male alla gola e si trascinò a casa che non era neanche più in grado di dire una parola; era tutto gonfio e si mise a letto. Tanto forte può essere a volte una strapazzata! Il giorno dopo gli si manifestò una forte febbre. Grazie alla generosa collaborazione del clima pietroburghese la malattia procedette più rapida di quanto ci si potesse aspettare, e quando comparve il dottore, tastato il polso, non trovò altro da fare che prescrivere un'impacco, ma solo perchè il malato non restasse privo del benefico aiuto della medicina; del resto, dichiarò subito, entro un giorno e mezzo sarebbe immancabilmente morto. Dopo di che si rivolse alla padrona di casa e disse: «E voi, nonnina, non perdete inutilmente il tempo, ordinategli subito una bella bara d'abete; una di quercia sarebbe troppo cara.»
Se Akàkij Akakièvič udì queste parole per lui fatali e se, avendole udite, ne fu sconvolto, se insomma rimpianse la sua vita derelitta, di questo nulla si sa, perchè rimase per tutto quel tempo in preda al delirio e alla febbre. Continuamente gli apparivano visioni, una più strana dell'altra: ora vedeva Petròvič e gli ordinava di fargli un cappotto con delle trappole contro i ladri che credeva di avere sotto il letto, tanto che ogni momento chiamava la padrona perchè tirasse fuori un ladro persino di sotto la coperta; ora domandava perchè davanti a lui stesse appesa la sua vecchia «vestaglia», dato che lui ormai aveva un cappotto nuovo; ora gli sembrava di stare in piedi davanti al generale ascoltando la strapazzata che si meritava, dicendo ogni tanto: «Sono colpevole, vostra eccellenza»; ora, infine, bestemmiava persino, mormorando le parole più terribili, tanto che la vecchia padrona di casa che da quando era nata non aveva mai udito nulla di simile, si faceva il segno della croce, anche perchè queste parole venivano subito dopo l'espressione «vostra eccellenza». Poi disse cose assolutamente insensate, incomprensibili: si capiva solo che quelle parole e quei pensieri sconclusionati ruotavano sempre intorno al cappotto. Infine il povero Akàkij Akakièvič spirò. Nè la stanza, nè le sue cose vennero poste sotto sigillo, perchè in primo luogo non c'erano eredi, e in secondo luogo da ereditare c'era ben poco, e precisamente: un mazzo di penne d'oca, una risma di carta bianca protocollo, tre paia di calzini, due o tre bottoni staccatisi dai pantaloni, e la «vestaglia» che il lettore ormai già conosce. Dio soltanto sa a chi sia andato tutto questo; confesso che della cosa non s'è interessato neppure chi ha scritto questo racconto. Portarono via Akàkij Akakièvič e lo seppellirono. E Pietroburgo rimase senza Akàkij Akakièvič, come se mai fosse esistito. Scomparve e si dileguò un essere che nessuno aveva difeso, che a nessuno era stato caro, per nessuno interessante, che non aveva attirato su di sè nemmeno l'attenzione del naturalista, il quale pure non disdegna di infilare su uno spillo una comunissima mosca e di osservarla al microscopio, un essere che aveva sopportato docilmente tutte le irrisioni del suo ufficio ed era sceso nella tomba senza aver compiuto alcuna straordinaria impresa; però, verso la fine della vita, a questo essere era apparso un ospite luminoso sotto forma d'un cappotto, un cappotto che per un istante aveva ravvivato la sua povera esistenza, ma sul quale poi s'era abbattuta implacabile la sciagura, così come si abbatte sugli imperatori e i sovrani del mondo... Alcuni giorni dopo la sua morte, dal ministero gli mandarono a casa un usciere con l'ordine di presentarsi immediatamente: il direttore lo voleva; ma l'usciere dovette tornarsene a mani vuote e riferire che Akàkij Akakièvič non si sarebbe più presentato; e alla domanda «perchè?» rispose con queste parole: «Ma è già morto, son tre giorni che gli hanno fatto i funerali.» Così al ministero vennero a sapere della morte di Akàkij Akakièvič; il giorno dopo al suo posto già sedeva un altro impiegato, assai più alto di statura e che non allineava le lettere con una scrittura così regolare, ma molto più inclinate e storte.
Ma chi avrebbe potuto immaginare che questo non è ancora tutto a proposito di Akàkij Akakièvičič, che egli era destinato a vivere ancora alcuni giorni dopo la sua morte e con gran rumore, come a ricompensa della sua vita da tutti trascurata? Eppure così accadde, e la nostra povera storia si conclude inaspettatamente nel modo più fantastico. Per Pietroburgo si sparsero a un tratto delle voci, che al Ponte Kalinkìn e anche molto più lontano aveva cominciato ad apparire un morto dall'aspetto d'un impiegato che cercava un cappotto rubato e, con il pretesto del cappotto rubato, strappava da tutte le spalle, senza badare a grado o titolo, ogni sorta di soprabiti: con collo di gatto, di castoro, imbottiti, pellicce di procione, di volpe, d'orso; insomma, pelli e peli d'ogni genere che gli uomini hanno inventato per coprirsi. Uno dei funzionari del ministero vide il morto con i suoi occhi e vi riconobbe immediatamente Akàkij Akakièvič; ciò gli procurò un tale terrore che si buttò a correre a gambe levate e perciò non potè distinguerlo bene, vide soltanto che da lontano il morto lo minacciava con un dito. Da tutte le parti cominciarono ad arrivare lamentele, che le schiene e le spalle, non soltanto dei consiglieri titolari, ma persino dei consiglieri segreti, erano minacciate di terribili infreddature a causa di quella notturna asportazione di soprabiti. Alla polizia venne data disposizione di catturare il morto a qualunque costo, e di punirlo nella maniera più feroce perchè servisse da esempio agli altri; e si deve dire che quasi vi riuscì. Proprio così. La guardia di non so quale quartiere riuscì, nel vicolo Kirjùškin, ad agguantare il morto per il bavero, proprio sul fatto, mentre tentava di strappare un cappotto di panno di frisia a un certo musicista a riposo che a suo tempo suonava il flauto. Afferratolo per il bavero, chiamò gridando due o tre colleghi ai quali l'affidò affinchè lo tenessero, mentre lui solo per un istante infilò una mano in uno stivale per tirarne fuori la tabacchiera e ristorarsi il naso che gli si era già congelato sei volte nella sua vita; ma di certo il tabacco era d'una qualità che nemmeno un morto poteva sopportare. Chiusa con il dito la narice destra, la guardia non fece in tempo ad aspirare una mezza presa con la sinistra, che il morto starnutì così forte da spruzzare completamente gli occhi a tutti e tre. Mentre essi alzavano le mani per asciugarsi, il morto si dileguò e di lui scomparve ogni traccia. Nessuno dei tre avrebbe saputo dire con precisione se l'avesse avuto veramente fra le mani. Da quel giorno le guardie si presero una tal paura dei morti che temevano persino d'agguantare i vivi e si limitavano a gridare da lontano: «Ehi, tu, va per la tua strada!» e il morto-funzionario cominciò a farsi vedere anche oltre il Ponte Kalinkìn, incutendo non poco terrore in tutta la gente pavida. Ma noi abbiamo completamente abbandonato quel personaggio importante, che in realtà era forse stato la causa della piega fantastica assunta da questa storia peraltro assolutamente veridica. Prima di tutto un dovere di giustizia esige che si dica che quel personaggio importante, subito dopo che il povero e strapazzato Akàkij Akakièvič se ne era andato, aveva provato qualcosa di simile alla compassione. La compassione non gli era estranea; il suo cuore era accessibile a molti buoni impulsi sebbene il grado troppo spesso impedisse loro di manifestarsi. Non appena fu uscito dal suo gabinetto l'amico di passaggio, egli si mise a pensare al povero Akàkij Akakièvič. E da quel momento quasi ogni giorno cominciò ad apparirgli il povero Akàkij Akakièvič che non aveva saputo resistere alla strapazzata del superiore. Questo pensiero l'agitava a tal punto che una settimana dopo egli addirittura decise di mandare un impiegato per sapere come stesse e che cosa facesse e se non lo si potesse aiutare in qualche modo; e, quando gli riferirono che Akàkij Akakièvič era morto prematuramente di febbre, rimase sbigottito, senti i rimorsi della coscienza e per tutta la giornata non fu più lui. Desiderando distrarsi e dimenticare la spiacevole impressione, si recò a una serata a casa di un suo amico, dove trovò una compagnia assai distinta e, cosa molto importante, di gente quasi tutta dello stesso grado, sicchè egli non ebbe bisogno di sentirsi legato e questo ebbe un effetto sorprendente sul suo umore. Egli si sciolse, si fece gradevole nella conversazione, cortese, insomma trascorse la serata molto piacevolmente. A cena bevve un paio di bicchieri di champagne, che, com'è noto, è ottimo per stimolare la gaiezza. Lo champagne lo spinse a prendere decisioni straordinarie, e cioè non andare a casa, ma passare da una certa signora di sua conoscenza, Karolìna Ivànovna, una signora, sembra, d'origine tedesca, per la quale egli nutriva sentimenti più che amichevoli. Occorre dire che l'importante personaggio era un uomo non più giovane, un buon marito, un rispettabile padre di famiglia. Aveva due figli, uno dei quali già prestava servizio in un ufficio statale, e una graziosa fanciulla di sedici anni col nasino all'insù; essi venivano ogni giorno a baciargli la mano dicendo: «Bonjour papà..» La sua consorte, una donna ancora fresca e assai graziosa, prima gli dava da baciare la propria mano e poi, rivoltandola, gli baciava la sua. Ma l'importante personaggio, sebbene pienamente soddisfatto delle domestiche familiari tenerezze, aveva ritenuto chic intrecciare una relazione amichevole con una conoscente che abitava in un'altra parte della città. Quest'amica non era nè più bella, nè più giovane di sua moglie; ma di queste incongruenze è pieno il mondo, e non è affar nostro giudicarne. Così l'importante personaggio scese le scale, montò su una slitta e disse al cocchiere: «Da Karolìna Ivànovna», mentre da parte sua, avvolto assai confortevolmente in un caldo cappotto, restava in quella piacevole disposizione d'animo, migliore della quale, per un russo, non si può immaginare, e cioè quando non si pensa a nulla e i pensieri ti frullano da soli in testa, uno più gradevole dell'altro, senza neppure la fatica di inseguirli e cercarli. D'ottimo umore, egli andava ricordando i momenti simpatici della serata appena trascorsa; tutte le parole che avevano fatto ridere la piccola cerchia; si ripeteva persino molte di esse a bassa voce e trovava che erano ancora buffe come prima, e perciò non c'era niente di strano che ne ridesse anch'egli di cuore. Di tanto in tanto, tuttavia, gli dava noia il vento impetuoso che, levandosi improvvisamente da chissà dove e chissà per quale motivo, gli tagliava la faccia, gli gettava addosso folate di neve, gonfiando come una vela il bavero del cappotto, o rovesciandoglielo di colpo, con forza innaturale, sulla testa, costringendolo così a fare continui sforzi per rimetterlo a posto. A un tratto l'importante personaggio sentì che qualcuno l'aveva afferrato vigorosamente per il bavero. Voltandosi, vide un uomo di piccola statura con una vecchia uniforme consunta e, non senza terrore, riconobbe in lui Akàkij Akakièvič. La faccia dell'impiegato era bianca come la neve e sembrava proprio la faccia d'un morto. Ma il terrore dell'importante personaggio superò tutti i limiti quando vide che la bocca del morto si storceva e, alitandogli addosso un orribile lezzo di tomba, pronunciava queste parole:
«Ah! Sei tu finalmente! Finalmente, ecco, t'ho raggiunto! È il tuo cappotto che mi serve! Non ti preoccupasti del mio, anzi mi maltrattasti, e adesso dammi il tuo!»
Il povero personaggio importante per poco non defunse. Sebbene in ufficio e in genere di fronte agli inferiori fosse un uomo di carattere, e di certo chiunque, vedendo il suo volto e la sua figura virile avrebbe detto: «Ah, che uomo!» qui, come accade a molti che hanno un aspetto da eroi, sentì un tal terrore che non senza ragione cominciò a temere che gli pigliasse un colpo. Si tolse egli stesso frettolosamente il cappotto dalle spalle e gridò al cocchiere con voce che non era più la sua:
«Di corsa a casa!»
Il cocchiere, udito quel grido, ch'era di quelli che si emettono nei momenti decisivi e s'accompagnano anche con qualcosa di più convincente, ritirò per ogni evenienza la testa nelle spalle, agitò la frusta e partì come una freccia. Pallido, spaventato, anzichè da Karolìna Ivànovna, egli arrivò a casa sua, si trascinò come potè fino alla sua stanza e passò la notte in modo assai agitato, tanto che il giorno dopo, al tè del mattino, la figlia gli disse con franchezza:
«Oggi sei molto pallido, papà.»
Ma il papà tacque e non fece parola ad alcuno di ciò che gli era accaduto e dove era andato e dove aveva avuto intenzione di andare. Quest'avvenimento produsse in lui una forte impressione. Cominciò perfino a dire più di rado ai sottoposti: «Come osate, capite chi avete davanti?» E se anche diceva qualcosa del genere, non lo faceva mai prima d'aver ascoltato la richiesta. Ma ancor più sintomatico è il fatto che da quel giorno cessarono le apparizioni dell'impiegato morto: evidentemente il cappotto generalizio gli era andato a pennello; perlomeno non si sentì più parlare di cappotti strappati. Molte persone zelanti non vollero però tranquillizzarsi e seguitarono a dire che nelle parti più remote della città l'impiegato morto si faceva vedere ancora. E in verità, una guardia di Kolòmna vide con i propri occhi il fantasma apparire da dietro una casa, ma essendo di natura pacifica, tanto che una volta un comune porcellino che scappava di corsa da una casa privata l'aveva mandato a gambe all'aria fra le risa di alcuni vetturini che stavano lì intorno e dal quali egli aveva poi preteso un soldo di tabacco per la presa in giro, essendo dunque un tipo pacifico non osò fermarlo, ma lo seguì nell'oscurità finchè il fantasma si voltò e disse fermandosi:
«Tu che cerchi?»
E gli mostrò un pugno come non se ne trovano fra i vivi. La guardia rispose:
«Niente», e tornò subito indietro.
Ma va notato che quel fantasma era di statura troppo alta, portava grandi baffi e, dirigendosi, pare, verso il Ponte Obuchòv, si dileguò nel buio della notte.
Nikolaj Vasil'evič Gogol' (1809-1852), Il cappotto, 1842 (da I racconti di Pietroburgo)
(Illustrazioni: Jana Brike)
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martedì
Intervista a George Steiner
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Un'intervista del 2007 a George Steiner.
La vita e il lavoro del critico letterario e dello scrittore.
(Una preziosa segnalazione da Aurelio Asiain)
La vita e il lavoro del critico letterario e dello scrittore.
(Una preziosa segnalazione da Aurelio Asiain)
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lunedì
Hellingly Asylum
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L'enorme struttura del vecchio ospedale psichiatrico di Hellingly, presso Brighton, nelle foto di Jeremy Gibbs: lo slideshow
sabato
venerdì
Mezzanotte 3
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L'orologio segnò la mezzanotte. Fu il segnale perché l'assassino che abita in questa zona, fra la veglia e il sonno, nel quale la realtà si increspa e si riavvolge, battesse tre colpi sulla porta. Questa si aprì con un cigolio di cardini arrugginiti. Entrò scivolando nell'oscurità. Fiutò la paura della sua vittima. Ne ascoltò i battiti accelerati del cuore e il respiro spezzato. Avvertì la spessa aura di panico che riempiva la casa. Avanzò con cautela, in silenzio come un'ombra. Estrasse il coltello. Annusò il sangue di vittime passate. Trattenne il respiro per mantenere il polso fermo. Ascoltò la lama fendere l'aria. Gorgoglìo. Rantolo. Estasi.
José Vicente Ortuño, Medianoche 3
Direttamente da «quello spazio, fra la veglia e il sonno, nel quale la realtà si increspa e si riavvolge», l'ultima delle mezzanotti del valenciano José Vicente Ortuño (tradotta dal blog letterario Químicamente impuro di Sergio Gaut vel Hartman)
Tutte le mezzanotti
Il sito di José Vicente Ortuño
José Vicente Ortuño, Medianoche 3
Direttamente da «quello spazio, fra la veglia e il sonno, nel quale la realtà si increspa e si riavvolge», l'ultima delle mezzanotti del valenciano José Vicente Ortuño (tradotta dal blog letterario Químicamente impuro di Sergio Gaut vel Hartman)
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mercoledì
Neanche un centesimo di euro
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«Scusate, ma io non darò neanche un centesimo di euro a favore di chi raccoglie fondi per le popolazioni terremotate in Abruzzo. So che la mia suona come una bestemmia. E che di solito si sbandiera il contrario, senza il pudore che la carità richiede. Ma io ho deciso. Non telefonerò a nessun numero che mi sottrarrà due euro dal mio conto telefonico, non manderò nessun sms al costo di un euro. Non partiranno bonifici, né versamenti alle poste. Non ho posti letto da offrire, case al mare da destinare a famigliole bisognose, né vecchi vestiti, peraltro ormai passati di moda.
Ho resistito agli appelli dei vip, ai minuti di silenzio dei calciatori, alle testimonianze dei politici, al pianto in diretta del premier. Non mi hanno impressionato i palinsesti travolti, le dirette no – stop, le scritte in sovrimpressione durante gli show della sera. Non do un euro. E credo che questo sia il più grande gesto di civiltà, che in questo momento, da italiano, io possa fare. (...)
Avrei potuto scucirlo qualche centesimo. Poi ho visto addirittura Schifani, nei posti del terremoto. Il Presidente del Senato dice che “in questo momento serve l’unità di tutta la politica”. Evviva. Ma io non sto con voi, perché io non sono come voi, io lavoro, non campo di politica, alle spalle della comunità. E poi mentre voi, voi tutti, avete responsabilità su quello che è successo, perché governate con diverse forme - da generazioni - gli italiani e il suolo che calpestano, io non ho colpa di nulla. Anzi, io sono per la giustizia. Voi siete per una solidarietà che copra le amnesie di una giustizia che non c’è.
Io non lo do, l’euro. Perché mi sono ricordato che mia madre, che ha servito lo Stato 40 anni, prende di pensione in un anno quasi quanto Schifani guadagna in un mese. E allora perché io devo uscire questo euro? Per compensare cosa? A proposito. Quando ci fu il Belice i miei lo sentirono eccome quel terremoto. E diedero un po’ dei loro risparmi alle popolazioni terremotate.
Poi ci fu l’Irpinia. E anche lì i miei fecero il bravo e simbolico versamento su conto corrente postale. Per la ricostruzione. E sappiamo tutti come è andata. Dopo l’Irpinia ci fu l’Umbria, e San Giuliano, e di fronte lo strazio della scuola caduta sui bambini non puoi restare indifferente. (...)
Io non do una lira per i paesi terremotati. E non ne voglio se qualcosa succede a me. Voglio solo uno Stato efficiente, dove non comandino i furbi. E siccome so già che così non sarà, penso anche che il terremoto è il gratta e vinci di chi fa politica. Ora tutti hanno l’alibi per non parlare d’altro, ora nessuno potrà criticare il governo o la maggioranza (tutta, anche quella che sta all’opposizione) perché c’è il terremoto. Come l’11 Settembre, il terremoto e l’Abruzzo saranno il paravento per giustificare tutto...»
Giacomo Di Girolamo, Ma io per il terremoto non do nemmeno un euro — da Marsala.it: leggi tutto
Ho resistito agli appelli dei vip, ai minuti di silenzio dei calciatori, alle testimonianze dei politici, al pianto in diretta del premier. Non mi hanno impressionato i palinsesti travolti, le dirette no – stop, le scritte in sovrimpressione durante gli show della sera. Non do un euro. E credo che questo sia il più grande gesto di civiltà, che in questo momento, da italiano, io possa fare. (...)
Avrei potuto scucirlo qualche centesimo. Poi ho visto addirittura Schifani, nei posti del terremoto. Il Presidente del Senato dice che “in questo momento serve l’unità di tutta la politica”. Evviva. Ma io non sto con voi, perché io non sono come voi, io lavoro, non campo di politica, alle spalle della comunità. E poi mentre voi, voi tutti, avete responsabilità su quello che è successo, perché governate con diverse forme - da generazioni - gli italiani e il suolo che calpestano, io non ho colpa di nulla. Anzi, io sono per la giustizia. Voi siete per una solidarietà che copra le amnesie di una giustizia che non c’è.
Io non lo do, l’euro. Perché mi sono ricordato che mia madre, che ha servito lo Stato 40 anni, prende di pensione in un anno quasi quanto Schifani guadagna in un mese. E allora perché io devo uscire questo euro? Per compensare cosa? A proposito. Quando ci fu il Belice i miei lo sentirono eccome quel terremoto. E diedero un po’ dei loro risparmi alle popolazioni terremotate.
Poi ci fu l’Irpinia. E anche lì i miei fecero il bravo e simbolico versamento su conto corrente postale. Per la ricostruzione. E sappiamo tutti come è andata. Dopo l’Irpinia ci fu l’Umbria, e San Giuliano, e di fronte lo strazio della scuola caduta sui bambini non puoi restare indifferente. (...)
Io non do una lira per i paesi terremotati. E non ne voglio se qualcosa succede a me. Voglio solo uno Stato efficiente, dove non comandino i furbi. E siccome so già che così non sarà, penso anche che il terremoto è il gratta e vinci di chi fa politica. Ora tutti hanno l’alibi per non parlare d’altro, ora nessuno potrà criticare il governo o la maggioranza (tutta, anche quella che sta all’opposizione) perché c’è il terremoto. Come l’11 Settembre, il terremoto e l’Abruzzo saranno il paravento per giustificare tutto...»
Giacomo Di Girolamo, Ma io per il terremoto non do nemmeno un euro — da Marsala.it: leggi tutto
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Criptopoe
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Un (impossibile) crittogramma di Edgar Allan Poe uscito sul «Graham's Magazine» dell'agosto del 1841 (oggi riproposto da «The New Yorker»).
La chiave per decifrarlo è But find this out and I give it up.
La chiave per decifrarlo è But find this out and I give it up.
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Crash
(Immagine: Orankutanki)
Ripensando a lui, immerso nel suo sangue sotto le luci ad arco della polizia, ricordo gli innumerevoli disastri immaginari da lui descritti mentre giravamo insieme sulle superstrade dell'aeroporto. Vauhan sognava di berline ambasciatoriali schiantatisi contro autobotti inarcate, di tassì pieni di bambini festosi scontratisi frontalmente sotto le vetrine sfolgoranti di supermercati deserti. Sognava di fratelli e sorelle alienati, incontratisi per caso su rotte di collisione lungo le rampe d'accesso di industrie petrolchimiche, il loro inconsapevole incesto reso esplicito dallo scontro fra metalli, dalle emorragie di tessuto cerebrale fiorenti sotto camere alluminizzate di compressione e vasi di reazione. Immaginava tamponamenti immani di nemici giurati, morti di essere odiosi celebrate tra le fiamme del carburante lingueggianti nelle cunette laterali, in un ribollire di vernice sullo sfondo dello smorto sole pomeridiano di città provinciali. Visualizzava gli scontri speciali di criminali evasi, e quelli di ricevitrici d'albergo fuori servizio intrappolate tra i volanti e i grembi degli amanti da esse masturbati. E pensava agli scontri di coppie in luna di miele, sedute insieme dopo gli impatti contro le sospensioni posteriori di autocisterne-pirata adibite al trasporto dello zucchero; e alle morti più astratte in assoluto - gli scontri di stilisti d'auto, feriti nelle loro macchine insieme con laboratoriste dalle abitudini promiscue.
Su queste collisioni, Vaughan elaborava variazioni infinite. Per prima cosa, immaginava una successione di scontri frontali: un molestatore di bambini e un medico stressato in atto di provare le rispettive morti prima in un urto frontale, poi in un cappottamento; la prostituta al termine della professione in quello di schiantarsi contro un parapetto autostradale di cemento - il corpo sovrappeso scagliato attraverso il parabrezza frantumato, i menopausati lombi dilacerati sulla mascotte cromata del cofano, il sangue rigante il cemento ultrabianco della banchina serale e ossessionante poi per sempre, nel ricordo, il meccanico della polizia incaricato di raccogliere le membra sparse in un lenzuolo di plastica giallo. In alternativa, immaginava la prostituta investita da un camion in retromarcia in un'area di servizio autostradale - schiacciata contro la portiera sinistra della macchina mentre si chinava per allacciarsi la scarpa destra, i contorni del corpo impressi in sanguinolenta impronta sul pannello della portiera. Oppure la vedova superare il parapetto del cavalcavia e morire come sarebbe morto lui, in un tuffo attraverso il tetto di un pullman aeroportuale, che trovava così moltiplicato il proprio carico di compiaciute destinazioni dalla morte di una miope di mezz'età. O la vedova infine investita da un tassì lanciato in velocità nel momento in cui usciva dalla sua macchina per fare i suoi bisogni in una latrina litoranea, e ne immaginava il corpo scagliato a trenta metri di distanza in uno schizzo d'urina e di sangue.
Ripenso agli altri scontri da noi visualizzati, alle morti assurde di gente ferita, menomata, impazzita. Ripenso agli scontri di psicopatici, a incidenti non plausibili provocati senza animosità o disgusto di sé, a collisioni multiple perfidamente provocate di sera, in auto rubate, fra stanchi impiegati su autostrade senza pedaggio. Ripenso agli scontri assurdi fra massaie nevrasteniche, di ritorno dalle loro cliniche per malattie veneree, e macchine parcheggiate in viali periferici. Ripenso agli scontri frontali tra eccitati schizofrenici e camioncini di lavanderia bloccati in strade a senso unico; a maniaco-depressivi schiacciati nel corso di insensate convergenze a U su rampe d'accesso autostradali; a sfortunati paranoici lanciati a tutta velocità contro muri di mattoni in fondo a strade senza uscita note a tutti; a bambinaie sadiche decapitate in scontri invertiti a incroci complessi; a direttrici lesbiche di supermercati bruciati a morte nello scheletro rovinato delle loro minuscole auto sotto lo sguardo stoico di pompieri di mezz'età; a bambini autistici schiacciati in tamponamenti, gli occhi meno feriti nella morte; ad autobus pieni di deficienti mentali in atto d'annegare stoicamente insieme in canali industriali a lato delle strade.
Molto prima della morte di Vaughan, avevo cominciato a pensare alla mia, di morte. Con chi morire, e in quale ruolo - psicopatico, nevrastenico, criminale in fuga? Vaughan andava incessantemente, nei suoi sogni, alle morti di gente famosa, per la quale inventava scontri immaginari. Intorno alle morti di James Dean e Albert Camus, Jayne Mansfield e John Kennedy, aveva intessuto elaborate fantasie. La sua immaginazione era una galleria di tiro al bersaglio piena di attrici cinematografiche, uomini politici, grandi della finanza e dirigenti televisivi. Vaughan seguiva costoro ovunque con la sua macchina fotografica, lo zoom puntato dalla piattaforma d'osservazione del Terminal Oceanico dell'aeroporto, dai mezzanini degli alberghi e dai parcheggi del teatro di posa. Per ciascuno di loro Onassis e consorte sarebbero morti in una ricreazione dell'assassino della Dealey Plaza. Reagan moriva invece in un tamponamento complesso, di una morte stilizzata che rifletteva l'ossessione di Vaughan per gli organi genitali di lui - un'ossessione simile all'altra sua per gli squisiti passaggi del pube dell'attrice cinematografica attraverso i coprisedili vinilici delle berline da nolo.Dopo il suo ultimo tentativo di uccidere mia moglie Catherine, mi resi conto che egli si era finalmente ritirato in se stesso. Nell'abbagliato reame di violenza e tecnologia ch'era il suo cervello, egli guidava ora perennemente a oltre centosessanta all'ora lungo un'autostrada deserta, oltrepassando vuote stazioni di servizio ai margini di ampie campagna, in attesa di una singola macchina che gli venisse incontro. Nella sua mente, vedeva così il mondo intero morire in un disastro automobilistico simultaneo: milioni di veicoli lanciati l'uno contro l'altro in un congresso finale tutto schizzi di lombi e liquido refrigerante...
James G. Ballard (15 novembre 1930-19 aprile 2009), brano dal romanzo Crash, 1973
(Traduzione italiana di Gianni Pilone Colombo, Bompiani 1999 — tratto da Sagarana.it)
Ripensando a lui, immerso nel suo sangue sotto le luci ad arco della polizia, ricordo gli innumerevoli disastri immaginari da lui descritti mentre giravamo insieme sulle superstrade dell'aeroporto. Vauhan sognava di berline ambasciatoriali schiantatisi contro autobotti inarcate, di tassì pieni di bambini festosi scontratisi frontalmente sotto le vetrine sfolgoranti di supermercati deserti. Sognava di fratelli e sorelle alienati, incontratisi per caso su rotte di collisione lungo le rampe d'accesso di industrie petrolchimiche, il loro inconsapevole incesto reso esplicito dallo scontro fra metalli, dalle emorragie di tessuto cerebrale fiorenti sotto camere alluminizzate di compressione e vasi di reazione. Immaginava tamponamenti immani di nemici giurati, morti di essere odiosi celebrate tra le fiamme del carburante lingueggianti nelle cunette laterali, in un ribollire di vernice sullo sfondo dello smorto sole pomeridiano di città provinciali. Visualizzava gli scontri speciali di criminali evasi, e quelli di ricevitrici d'albergo fuori servizio intrappolate tra i volanti e i grembi degli amanti da esse masturbati. E pensava agli scontri di coppie in luna di miele, sedute insieme dopo gli impatti contro le sospensioni posteriori di autocisterne-pirata adibite al trasporto dello zucchero; e alle morti più astratte in assoluto - gli scontri di stilisti d'auto, feriti nelle loro macchine insieme con laboratoriste dalle abitudini promiscue.
Su queste collisioni, Vaughan elaborava variazioni infinite. Per prima cosa, immaginava una successione di scontri frontali: un molestatore di bambini e un medico stressato in atto di provare le rispettive morti prima in un urto frontale, poi in un cappottamento; la prostituta al termine della professione in quello di schiantarsi contro un parapetto autostradale di cemento - il corpo sovrappeso scagliato attraverso il parabrezza frantumato, i menopausati lombi dilacerati sulla mascotte cromata del cofano, il sangue rigante il cemento ultrabianco della banchina serale e ossessionante poi per sempre, nel ricordo, il meccanico della polizia incaricato di raccogliere le membra sparse in un lenzuolo di plastica giallo. In alternativa, immaginava la prostituta investita da un camion in retromarcia in un'area di servizio autostradale - schiacciata contro la portiera sinistra della macchina mentre si chinava per allacciarsi la scarpa destra, i contorni del corpo impressi in sanguinolenta impronta sul pannello della portiera. Oppure la vedova superare il parapetto del cavalcavia e morire come sarebbe morto lui, in un tuffo attraverso il tetto di un pullman aeroportuale, che trovava così moltiplicato il proprio carico di compiaciute destinazioni dalla morte di una miope di mezz'età. O la vedova infine investita da un tassì lanciato in velocità nel momento in cui usciva dalla sua macchina per fare i suoi bisogni in una latrina litoranea, e ne immaginava il corpo scagliato a trenta metri di distanza in uno schizzo d'urina e di sangue.
Ripenso agli altri scontri da noi visualizzati, alle morti assurde di gente ferita, menomata, impazzita. Ripenso agli scontri di psicopatici, a incidenti non plausibili provocati senza animosità o disgusto di sé, a collisioni multiple perfidamente provocate di sera, in auto rubate, fra stanchi impiegati su autostrade senza pedaggio. Ripenso agli scontri assurdi fra massaie nevrasteniche, di ritorno dalle loro cliniche per malattie veneree, e macchine parcheggiate in viali periferici. Ripenso agli scontri frontali tra eccitati schizofrenici e camioncini di lavanderia bloccati in strade a senso unico; a maniaco-depressivi schiacciati nel corso di insensate convergenze a U su rampe d'accesso autostradali; a sfortunati paranoici lanciati a tutta velocità contro muri di mattoni in fondo a strade senza uscita note a tutti; a bambinaie sadiche decapitate in scontri invertiti a incroci complessi; a direttrici lesbiche di supermercati bruciati a morte nello scheletro rovinato delle loro minuscole auto sotto lo sguardo stoico di pompieri di mezz'età; a bambini autistici schiacciati in tamponamenti, gli occhi meno feriti nella morte; ad autobus pieni di deficienti mentali in atto d'annegare stoicamente insieme in canali industriali a lato delle strade.
Molto prima della morte di Vaughan, avevo cominciato a pensare alla mia, di morte. Con chi morire, e in quale ruolo - psicopatico, nevrastenico, criminale in fuga? Vaughan andava incessantemente, nei suoi sogni, alle morti di gente famosa, per la quale inventava scontri immaginari. Intorno alle morti di James Dean e Albert Camus, Jayne Mansfield e John Kennedy, aveva intessuto elaborate fantasie. La sua immaginazione era una galleria di tiro al bersaglio piena di attrici cinematografiche, uomini politici, grandi della finanza e dirigenti televisivi. Vaughan seguiva costoro ovunque con la sua macchina fotografica, lo zoom puntato dalla piattaforma d'osservazione del Terminal Oceanico dell'aeroporto, dai mezzanini degli alberghi e dai parcheggi del teatro di posa. Per ciascuno di loro Onassis e consorte sarebbero morti in una ricreazione dell'assassino della Dealey Plaza. Reagan moriva invece in un tamponamento complesso, di una morte stilizzata che rifletteva l'ossessione di Vaughan per gli organi genitali di lui - un'ossessione simile all'altra sua per gli squisiti passaggi del pube dell'attrice cinematografica attraverso i coprisedili vinilici delle berline da nolo.Dopo il suo ultimo tentativo di uccidere mia moglie Catherine, mi resi conto che egli si era finalmente ritirato in se stesso. Nell'abbagliato reame di violenza e tecnologia ch'era il suo cervello, egli guidava ora perennemente a oltre centosessanta all'ora lungo un'autostrada deserta, oltrepassando vuote stazioni di servizio ai margini di ampie campagna, in attesa di una singola macchina che gli venisse incontro. Nella sua mente, vedeva così il mondo intero morire in un disastro automobilistico simultaneo: milioni di veicoli lanciati l'uno contro l'altro in un congresso finale tutto schizzi di lombi e liquido refrigerante...
James G. Ballard (15 novembre 1930-19 aprile 2009), brano dal romanzo Crash, 1973
(Traduzione italiana di Gianni Pilone Colombo, Bompiani 1999 — tratto da Sagarana.it)
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venerdì
Terremoto e segreti
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«Dopo il terremoto che ha colpito l'Abruzzo vari paesi esteri ci hanno offerto aiuto. Erano pronti ad inviare uomini e mezzi. Il Governo ha rifiutato affermando che non ne avevamo bisogno.
Berlusconi ha rilasciato la seguente dichiarazione: “Ringraziamo i paesi stranieri per la loro solidarietà, ma invitiamo a non inviare qui i loro aiuti. Siamo in grado di rispondere da soli alle esigenze, siamo un popolo fiero e di benessere, li ringrazio ma bastiamo da soli”.
Siamo in grado di rispondere da soli alle esigenze? Siamo un popolo fiero e di benessere? Bastiamo da soli? Ma se i terremotati dell'Irpinia è trent'anni che vivono in prefabbricati…»
Solange Manfredi, Terremoto e segreti, 14 aprile 2009 (dal blog di Paolo Franceschetti — leggi tutto)
Berlusconi ha rilasciato la seguente dichiarazione: “Ringraziamo i paesi stranieri per la loro solidarietà, ma invitiamo a non inviare qui i loro aiuti. Siamo in grado di rispondere da soli alle esigenze, siamo un popolo fiero e di benessere, li ringrazio ma bastiamo da soli”.
Siamo in grado di rispondere da soli alle esigenze? Siamo un popolo fiero e di benessere? Bastiamo da soli? Ma se i terremotati dell'Irpinia è trent'anni che vivono in prefabbricati…»
Solange Manfredi, Terremoto e segreti, 14 aprile 2009 (dal blog di Paolo Franceschetti — leggi tutto)
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Mia zia è un robot
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Dicono che lo diceva lo scemo del villaggio. Camminava per il viale e quando incrociava qualcuno, non con tutti, gli diceva “mia zia è un robot”. Alcune persone che dicono d’aver parlato con lui, raccontano che quando gli domandavano perché diceva quella cosa, lui raccontava che era perché aveva una zia robot. I più audaci continuavano a far domande, così raccontano, e lo scemo del villaggio diceva loro che sua zia aveva un chiodo nel braccio, due denti metallici, una protesi nel ginocchio e una forbice nell’addome che i chirurghi s’erano dimenticata. Povero scemo, dicevano: questa zia è una persona vera con delle parti di metallo. Ma c’era una persona che non diceva così, diceva che quando lo scemo stava in manicomio, sua zia veniva a fargli visita e gli offriva una birra che estraeva da uno scomparto nel suo addome.
Álvaro Ruiz de Mendarozqueta, Mi tía es un robot
(Tradotto dal blog Químicamente impuro)
Álvaro Ruiz de Mendarozqueta, Mi tía es un robot
(Tradotto dal blog Químicamente impuro)
giovedì
Una canzone d'amore
Out on the wiley, windy moors
Wed roll and fall in green.
You had a temper like my jealousy:
Too hot, too greedy.
How could you leave me,
When I needed to possess you?
I hated you. I loved you, too.
Bad dreams in the night.
They told me I was going to lose the fight,
Leave behind my wuthering, wuthering
Wuthering heights.
Heathcliff, its me--cathy.
Come home. Im so cold!
Let me in-a-your window.
Heathcliff, its me--cathy.
Come home. Im so cold!
Let me in-a-your window.
Ooh, it gets dark! it gets lonely,
On the other side from you.
I pine a lot. I find the lot
Falls through without you.
Im coming back, love.
Cruel heathcliff, my one dream,
My only master.
Too long I roam in the night.
Im coming back to his side, to put it right.
Im coming home to wuthering, wuthering,
Wuthering heights,
Heathcliff, its me--cathy.
Come home. Im so cold!
Let me in-a-your window.
Heathcliff, its me--cathy.
Come home. Im so cold!
Let me in-a-your window.
Ooh! let me have it.
Let me grab your soul away.
Ooh! let me have it.
Let me grab your soul away.
You know its me--cathy!
Heathcliff, its me--cathy.
Come home. Im so cold!
Let me in-a-your window.
Heathcliff, its me--cathy.
Come home. Im so cold!
Let me in-a-your window.
Heathcliff, its me--cathy.
Come home. Im so cold!
Kate Bush, Wuthering Heights, 1978
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