venerdì
Bombay (Mumbai): la città che amo
La Bombay della sua infanzia e la Mumbai di oggi, lacerata dalla povertà e dalla disperazione.
Il testo completo su «The Guardian»
Il sito ufficiale di Amit Chauduri
Bombay/Mumbai su Narcolessia delle giraffe
giovedì
La morte violetta
Sir Roger Thornton guardava fìsso il fuoco. Se quello non fosse stato un Sanniasi… un penitente… che inoltre andava in pellegrinaggio a Benares, non ci sarebbe stato da credere neppure una parola; ma un Sanniasi non mente, né gli si può mentire.
E allora quel perfido e terribile moto convulso del viso dell’asiatico?
O era stato tratto in inganno forse dal riflesso del fuoco che si rispecchiava così stranamente negli occhi dei Mongoli?
I Tibetani odiano gli europei e tengono gelosamente nascosti i loro segreti magici con i quali sperano di poter annientare gli altezzosi stranieri, quando verrà il gran giorno.
Ma tutto ciò non contava; lui, Sir Roger Thornton, doveva constatare con i propri occhi se era vero che questo popolo meraviglioso disponeva effettivamente di Forze Occulte. Gli occorrevano però compagni, uomini coraggiosi, di ferma volontà, anche se avessero dovuto incontrare cose paurose, appartenenti a un altro mondo.
L’inglese passò in rivista i suoi compagni: di tutti gli asiatici l’unico da prendere in considerazione sarebbe stato l’afgano, ignaro della paura come una bestia feroce, ma tremendamente superstizioso.
Sicché rimaneva unicamente il suo servo.
Sir Roger lo toccò con il bastone. Pompeo Jaburek era completamente sordo da una decina di anni, ma sapeva intendere dal moto delle labbra ogni parola, anche se straniera.
Con gesti pieni di espressione, Sir Roger gli raccontò quel che aveva appreso dal tibetano. A circa venti giorni di viaggio di là da un punto ben precisatogli della valle dell’Imavat, si trovava una località: da tre lati la chiudevano rocce strapiombanti e l’unico accesso era impedito da gas velenosi che sorgevano ininterrottamente dal sottosuolo e uccidevano all’istante qualunque essere vivente tentasse di attraversarla.
In quella gola, dall’ampiezza di circa cinquanta miglia quadrate, sarebbe vissuta, in mezzo alla più lussureggiante vegetazione, una piccola tribù appartenente alla razza tibetana, che portava berretti rossi a punta e adorava una crudele divinità satanica raffigurata da un pavone. Questo essere diabolico, nel corso di innumerevoli secoli, avrebbe insegnato agli abitanti la magia, e avrebbe rivelato loro dei misteri che un giorno avrebbero sconvolto l’intero globo terrestre. Inoltre, avrebbe insegnato loro una specie di melodia capace di annientare all’istante l’uomo più forte del mondo.
Pompeo rise laconicamente. Sir Roger spiegò che pensava di poter oltrepassare i passaggi venefici con l’aiuto di visiere da palombaro e apparecchi del genere contenenti aria compressa o, più semplicemente, con perfezionatissime maschere contro i gas asfissianti, e penetrare così nella gola misteriosa.
Pompeo fece di sì col capo e si fregò le mani sudicie.
Il tibetano non aveva mentito. Laggiù, in mezzo al più rigoglioso verdeggiare della foresta, si apriva una misteriosa gola. Una specie di cintura giallobruna di terra molle e disgregata – della larghezza circa di una mezz’ora di cammino – separava quel vasto territorio dal mondo esterno.
Il gas che si sprigionava dal suolo altro non era che acido carbonico.
Sir Roger, che da un’altura aveva calcolato la larghezza approssimativa di quella cintura di terreno, decise di iniziare il giorno seguente la spedizione. Le maschere che si era fatte venire da Bombay funzionavano alla perfezione. Pompeo portava i due fucili a ripetizione e altri oggetti che il suo padrone credeva indispensabili.
L’afgano si era ostinatamente rifiutato di accompagnarli, e aveva dichiarato che era sempre pronto a entrare nella tana di una tigre ma che non avrebbe osato qualcosa di pericoloso per la sua anima immortale. Così i due europei erano stati i soli a intraprendere la spedizione.
Dal suolo spugnoso salivano nuvolette di gas venefici. Sir Roger aveva adottato un passo piuttosto svelto affinché l’aria compressa della maschera fosse sufficiente alla traversata della zona. Tutto quel che gli stava dinanzi appariva in forme ondeggianti come attraverso uno strato d’acqua. La luce del sole gli sembrava di un verde spettrale e colorava i lontani ghiacciai – «il tetto del mondo» dal profilo gigantesco – come uno strano paesaggio di morti.
Arrivato con Pompeo a uno spiazzo di erba verde, accese un fiammifero per accertarsi della presenza di aria respirabile. Allora tutti e due si tolsero le maschere.
Dietro a loro si stendeva la parete di gas come una massa di acqua tremolante. Nell’aria vi era un odore inebriante simile a quello dei fiori d’amberia; farfalle iridescenti, grandi come mani, stavano posate con le ali spiegate, quasi libri magici aperti su fiori immobili.
I due procedettero, a una certa distanza l’uno dall’altro, in direzione di una macchia boscosa che chiudeva loro la visuale.
Sir Roger fece un segno al servo muto: gli era parso di aver avvertito un rumore. Pompeo alzò il cane del suo fucile. Giunsero sull’orlo della foresta; dinanzi a loro si apriva una prateria. A un quarto di miglio appena, un centinaio di uomini dall’aspetto di Tibetani, col capo coperto di berretti rossi a punta, avevano formato un semicerchio e attendevano gli intrusi. Sir Roger si diresse senza esitare verso di loro; alcuni passi dietro di lui veniva Pompeo.
I Tibetani erano vestiti delle loro usuali pelli di capra, tuttavia avevano ben poco l’aspetto di esseri umani tanto i loro volti erano informi e di una bruttezza terrificante, con una espressione di cattiveria bestiale. Lasciarono che i due si avvicinassero poi, con la rapidità del fulmine, balzarono simultaneamente, al comando del loro capo, portando le mani in alto e premendole fortemente sugli occhi. Nello stesso istante, con tutta la forza dei loro polmoni gridarono qualcosa.
Pompeo Jaburek guardò il padrone come per interrogarlo e tenne pronto il fucile, perché la strana manovra di quella gente gli parve l’inizio di un attacco. Ma quel che gli si parò davanti gli fece affluire tutto il sangue al cuore.
Attorno al suo padrone si era formata una massa tremolante di gas che si innalzava a vortice, simile a quella che poco prima avevano attraversato. La figura di Sir Roger stava perdendo i contorni come se fosse logorata dal vortice; il capo diventava appuntito e tutta la massa del corpo alla fine cadde come se rientrasse in sé, e al posto dove un momento prima si era trovato il robusto inglese, rimase un cono violetto chiaro della grandezza e dall’aspetto di un pan di zucchero.
Il muto Pompeo fu assalito da un selvaggio furore. I Tibetani gridavano ancora, ed egli era tutto teso a spiare le loro labbra per leggervi quello che veramente volevano dire.
La parola era sempre una e la stessa. A un tratto il capo si alzò e tutti si tolsero le mani dagli occhi, tacendo. Simili a pantere si lanciarono su Pompeo. Egli fece fuoco, e i Tibetani parvero per un istante sbigottiti.
Istintivamente Pompeo gridò verso di essi la parola che aveva letto sulle loro labbra: A-me-dan. A-me-dan: così forte che tutta la valle ne fu scossa come da un terremoto.
Lo prese come una voragine: gli pareva di vedere tutto attraverso delle lenti spesse, mentre la terra gli si muoveva sotto i piedi. Ma non fu che un istante; tornò subito a veder chiaro come prima.
I Tibetani erano spariti come poco prima il suo padrone, e non gli restavano davanti che innumerevoli pan di zucchero color violetto.
Il loro capo viveva ancora. Le sue gambe erano già quasi cambiate in una poltiglia azzurra e anche la parte superiore del corpo cominciava a raggricciarsi: pareva quasi che tutto l’individuo venisse assorbito da un essere invisibile. Lui non aveva il berretto rosso degli altri, ma uno strano copricapo simile a una mitria sotto la quale si muovevano gli occhi gialli.
Jaburek gli fracassò il cranio col calcio del fucile ma non poté impedire che il morente lo ferisse a un piede con una roncola tirata fuori all’ultimo momento.
Il profumo dei fiori di amberia si era fatto così forte da essere quasi pungente: pareva che uscisse dai coni violetti che Pompeo stava ora guardando. Erano tutti uguali e formati dallo stesso muco gelatinoso di color violetto chiaro. Ritrovare i resti di Sir Roger tra quei coni violetti era impossibile.
Pompeo, a denti stretti, guardò ancora una volta in viso il capo dei Tibetani e riprese il cammino che aveva percorso venendo. Ritrovò le maschere, riempì la sua di aria, e s’inoltrò nella zona piena di gas.
Pompeo Jaburek scrisse tutto quanto era accaduto, parola per parola, come si erano svolti i fatti davanti a lui – arrivare a spiegarli non poteva davvero – e poi l’indirizzò al segretario del suo padrone a Bombay, via Adheritollah 17. L’afgano si prese l’incarico di fargli pervenire la lettera. Di lì a poco Pompeo morì perché la roncola del tibetano era avvelenata.
«Allah è il solo dio, e Maometto è il suo profeta!», pregò l’afgano toccando il suolo con la fronte, mentre i cacciatori indù ricoprivano di fiori il cadavere e lo bruciavano su una catasta di legna pregando piamente.
Quando Ali Murrad Bey, il segretario, lesse la notizia, diventò pallido di spavento e mandò subito la lettera alla direzione della Indian Gazette.
Fu l’inizio di un nuovo diluvio universale, di un cataclisma infernale.
La Indian Gazette che recava la pubblicazione del «caso di Sir Roger Thornton», comparve il giorno dopo con tre ore di ritardo. Un misterioso e spaventoso incidente ne era la causa.
Mister Narorodje, redattore del giornale, e due impiegati che solevano rivedere ancora una volta il giornale a mezzanotte prima della sua uscita, erano scomparsi dalla loro stanza di lavoro senza lasciar traccia. Si trovarono per terra al loro posto tre cilindri bluastri e gelatinosi e, in mezzo ad essi, una copia del giornale appena stampato. La polizia aveva appena terminato, dandosi grandi arie d’importanza, le prime indagini, quando si verificarono innumerevoli altri casi analoghi.
Dinanzi agli occhi della folla spaventata che si riversava per le strade, sparivano a dozzine gli uomini che leggevano i giornali gesticolando. E tutt’attorno si vedevano tante piramidi azzurre, sulle scale, nei mercati, nei vicoli, ovunque l’occhio si volgesse. Prima che fosse sera, Bombay aveva perduto quasi la metà della popolazione. Una ordinanza sanitaria dispose l’immediato blocco del porto e vietò qualsiasi commercio con l’esterno per arginare il più possibile la nuova epidemia, giacché non poteva trattarsi d’altro.
Telegrammi e cablogrammi non cessavano giorno e notte di diffondere nel mondo la terribile notìzia del «caso di Sir Roger Thornton».
Il giorno dopo fu però tolta la quarantena perché riconosciuta una misura troppo tardiva. Da tutti i paesi notizie spaventose partecipavano che la «morte violetta» era scoppiata quasi ovunque contemporaneamente, e minacciava di rendere deserta la Terra. Gli uomini avevano perduto il controllo di se stessi e il mondo civile somigliava a un gigantesco formicaio nel quale un contadino bestiale avesse infilato la pipa accesa.
In Germania l’epidemia scoppiò prima ad Amburgo. L’Austria, dove si leggono soltanto le notizie locali, fu risparmiata per parecchie settimane.
Il primo caso di Amburgo era particolarmente impressionante. Il pastore Sulken, un uomo che la venerabile età aveva reso quasi sordo, sedeva una mattina a tavola per prendere il caffè, nel cerchio dei suoi cari: Teobaldo, il maggiore, con la sua lunga pipa di studente; Jetta, la fedele consorte; Minna, Tina e, insomma, tutti quanti.
Il vegliardo aveva aperto allora il giornale inglese da poco arrivato e leggeva ai suoi il «caso Thornton»; giunto alla parola «Ame-dan», voleva schiarirsi la voce con un sorso di caffè, quando a un tratto si accorse che attorno a lui non c’erano che coni violetti e gelatinosi. In uno stava ancora infilata la pipa.
Tutte quelle quattordici anime il Signore le aveva chiamate a sé.
Il pio vecchio cadde a terra privo di sensi.
Di lì a una settimana quasi metà del genere umano era morto.
Era riservata a uno scienziato tedesco la fortuna di portare un po’ di luce in questi avvenimenti. Il caso che sordi e sordomuti fossero immuni all’epidemia lo aveva portato a considerare che doveva trattarsi di un semplice fenomeno acustico.
La sua spiegazione consisteva all’incirca in un riferimento ad alcuni scritti religiosi indiani quasi sconosciuti, i quali trattano di tempeste vorticose astrali ed eteree provocate da parole e da formule magiche; e convalidava questa supposizione con i moderni esperimenti sulla vibrazione e sull’irradiazione.
Tenne la sua conferenza a Berlino e, per leggere le lunghe frasi del manoscritto, fu costretto a servirsi di un gigantesco altoparlante, tanto enorme era stato il concorso del pubblico.
La dotta dissertazione terminò con le parole lapidarie: «Andate dal medico degli orecchi, che vi faccia diventar sordi, e poi guardatevi dal pronunciar la parola Amedan».
Un minuto dopo, lo scienziato e i suoi uditori erano tanti coni gelatinosi e senza vita, ma il manoscritto rimase, fu divulgato e salvaguardò l’umanità dalla completa distruzione.
Alcuni decenni dopo questi avvenimenti (stiamo scrivendo nel 1950), una generazione di uomini sordomuti abita la Terra.
Usi e costumi diversi, posizioni sociali capovolte, il dominio abolito. Uno specialista per orecchi regge il mondo… La musica è disprezzata quanto le ricette alchimistiche del Medio Evo… Mozart, Beethoven, Wagner sono caduti nel ridicolo.
Nelle stanze di tortura dei musei un pianoforte polveroso digrigna i suoi vecchi denti.
Gustav Meyrink (1868-1932), Der violette Tod (1922)
(L'ironia e l'utopia orrorifica di Meyrink sono state tratte da Il Golem e altri racconti, traduzione di Gianni Pilo, Newton 1994)
martedì
L'oro di Roma — Parte seconda
«Dopo l'inchiesta di "Report", il programma di Milena Gabanelli che ha alzato il velo sulla gestione dei rifiuti a Roma e la commistione di interessi tra privati e politica, l'assessore della Regione Lazio Mario Di Carlo si è subito fatto da parte. Di Carlo, responsabile delle politiche per la Casa, ha avuto nel tardo pomeriggio un incontro di circa un'ora con il presidente Piero Marrazzo, al quale ha rimesso la delega, che adesso resterà alla presidenza...»
(Rifiuti a Roma, dopo «Report» Di Carlo rinuncia alla delega, da «Il Sole 24 Ore» del 24 novembre 2008 — leggi tutto)
lunedì
L'oro di Roma
«Il 24 giugno 2008, dopo 9 anni di commissariamento straordinario, la regione Lazio è uscita finalmente dall'emergenza con un nuovo piano per i rifiuti che prevede, entro il 2011, la realizzazione di alcuni gassificatori. La commissione europea era sul punto di sanzionare l'Italia perché l'ultimo piano rifiuti che mancava era proprio quello della regione Lazio che ha un bilancio disastroso: solo il 14% di raccolta differenziata contro il 42% della Lombardia. In questi mesi i cittadini romani hanno spesso dato vita a forme di protesta: se si facesse la raccolta differenziata, dicono, non ci sarebbe bisogno di bruciare tutto. La discarica di Malagrotta è la più grande d'Europa, ci finiscono dentro i rifiuti di Roma, Ciampino, Fiumicino e della Città del Vaticano. Appartiene alla società E. Giovi di Francesco Rando, mentre il capitale è dell'avvocato Manlio Cerroni: il monopolista romano dello smaltimento dei rifiuti...»
Paolo Mondani, L'oro di Roma (da «Report» del 24 novembre 2008) — leggi l'articolo per intero; guarda il video
venerdì
Breve antologia della letteratura universale
Cantami, o Diva, non solo del pelide Achille l’ira funesta, ma anche come in principio Dio creò i cieli e la terra e come subito, nel corso di più di mille notti, qualcuno raccontò la storia compendiata dell’uomo, e dunque conoscemmo che, nel mezzo del cammin di nostra vita, un bel mattino uno si risvegliò mutato in un enorme insetto, un altro assaggiò una madeleine e all’istante ritrovò il paradiso dell’infanzia, un altro dubitò dinnanzi al teschio, altri si elesse melibeo, altri pianse i dolci pegni mal trovati, altri dopo le nozze restò cieco, altri sognò da desto e altri nacque e morì in un luogo del cui nome non ricordo. E cantami, o Diva, col tuo canto generale, della balena bianca, della notte oscura, dell’arpa là nell’angolo, delle belle teste, dell’olmo secco, della dolce Rita delle Ande, delle illusioni perdute, e del verde vento e delle sirene e di me stesso.
Luis Landero, Breve antologia de la literatura universal (pubblicato in Quince líneas, Tusquets Editores 1996, con lo pseudonimo Faroni)
Un testo incredibile, denso di riferimenti letterari — le giraffe vi sfidano rintracciarli —, tradotto su segnalazione di Juan Yanes, dalla sua preziosa Máquina de coser palabras
Il mistero dei rosacroce. E la Rosa Rossa
«A mio parere il mistero più grande non è se questi esistano davvero, la loro data di nascita, e altre idiozie buone solo per intellettuali che fanno finta di voler capire la realtà, ma che vogliono solo portare i lettori e la gente comune fuori pista.
Il mistero più grande è capire in quale momento un’organizzazione che si rifaceva al messaggio di Cristo e a filosofie meravigliose (...), si sia trasformata in un’organizzazione criminale che – oltre al potere politico e finanziario – permette ai suoi affiliati di commettere i delitti più impensati, da quelli del Mostro di Firenze a quelli di Cogne o di Haider...»
Da Paolo Franceschetti, Il mistero dei rosacroce. E la Rosa Rossa (leggi tutto)
giovedì
Vita di un proiettile
La vita di un proiettile.
E la sua "morte" scioccante.
(Dalle sequenze d'apertura del film Lord of War)
mercoledì
Traiettoria
Adolf Hitler (1189-1965) è stato un pittore di acquerelli che ha goduto di una certa celebrità dopo la sua morte grazie al capriccio dei collezionisti. Giusto ieri, durante un’asta bandita alla Galleria Sobiewski di Varsavia, il suo acquerello Forno crematorio a Dachau è stato battuto per 42 milioni di zloty dopo un’intensa gara al rilancio fra l’armatore Karol Wojtyla e l’industriale avicolo Arnold Schwarzenegger. Il principato di Linz ha presentato un reclamo formale dinanzi al governo polacco, adducendo che la citata tela era stata rubata da ufficiali di quella nazione durante la Grande Guerra Esteuropea del 1948, ma la protesta non è stata presa in considerazione. Quando Hitler è morto nella sua casa di Malibu, dopo una lunga carriera come scenografo di film di serie B, non era riuscito a vendere nessuno dei suoi dipinti.
Sergio Gaut vel Hartman, Trayectoria
Un'eccentrica traiettoria temporale dell'argentino Sergio Gaut vel Hartman (tradotta dal suo blog Químicamente impuro)
Sergio Gaut vel Hartman: la rivista «Sinergia» e gli altri due blog: Ráfagas, parpadeos e Breves no tan breves
Sergio Gaut vel Hartman su Narcolessia delle giraffe
martedì
Gerarchia
Se arrivo in una città
oltre l'oceano
Molto spesso arrivo in una nuova città, portato dal dubbio.
Divenuto da un giorno all'altro pellegrino
di una fede in cui non credo;
rappresentante di una merce da tempo svalutata,
ma è grande, sempre, una strana speranza -
Scendo dall'aeroplano col passo del colpevole,
la coda tra le gambe, e un eterno bisogno di pisciare,
che mi fa incamminare un po' ripiegato con un sorriso incerto -
C'è da sbrigare la dogana, e, molto spesso, i fotografi:
comune amministrazione che ognuno cura come un'eccezione.
Poi l'ignoto.
Chi passeggia alle quattro del pomeriggio
sulle aiuole piene di alberi
e i boulevards d'una disperata città dove europei poveri
sono venuti a ricreare un mondo a immagine e somiglianza del loro,
spinti dalla povertà a fare di un esilio una vita?
Con un occhio alle mie faccende, ai miei obblighi -
Poi, nelle ore libere,
comincia la mia ricerca, come se anch'essa fosse una colpa -
La gerarchia però è ben chiara nella mia testa.
Non c'è Oceano che tenga.
Di questa gerarchia gli ultimi sono i vecchi.
Sì, i vecchi alla cui categoria comincio ad appartenere
(non parlo del fotografo Saderman che con la moglie
già amica della morte mi accoglie sorridendo
nello studiolo di tutta la loro vita)
Sì, c'è qualche vecchio intellettuale
che nella Gerarchia
si pone all'altezza dei più bei marchettari
i primi che si trovano nei punti subito indovinati
e che come Virgili conducono con popolare delicatezza
qualche vecchio è degno dell'Empireo,
è degno di star accanto al primo ragazzo del popolo
che si dà per mille cruzeiros a Copacabana
ambedue son lo mio duca
che tenendomi per mano con delicatezza,
la delicatezza dell'intellettuale e quella dell'operaio
(per lo più disoccupato)
la scoperta dell'invariabilità della vita
ha bisogno di intelligenza e di amore
Vista dall'hotel di Rua Resende Rio -
l'ascesi ha bisogno del sesso, del cazzo -
quella finestrella dell'hotel dove si paga la stanzetta -
si guarda dentro Rio, in un aspetto dell'eternità,
la notte di pioggia che non porta il fresco,
e bagna le strade miserabili e le macerie,
e gli ultimi cornicioni del liberty dei portoghesi poveri
sublime miracolo!
E dunque José Carrea è il Primo nella Gerarchia,
e con lui Harudo, sceso bambino da Bahia, e Joaquim.
La Favela era come Cafarnao sotto il sole -
Percorsa dai rigagnoli delle fogne
le baracche una sull'altra
ventimila famiglie
(egli sulla spiaggia chiedendomi la sigaretta come un prostituto)
Non sapevamo che a poco a poco ci saremmo rivelati,
prudentemente, una parola dopo l'altra
detta quasi distrattamente:
io sono comunista, e: io sono sovversivo;
faccio il soldato in un reparto appositamente addestrato
per lottare contro i sovversivi e torturarli;
ma loro non lo sanno;
la gente non si rende conto di nulla;
essi pensano a vivere
(mi parla del sottoproletariato)
La Favela, fatalmente, ci attendeva
io gran conoscitor, egli duca -
i suoi genitori ci accolsero, e il fratellino nudo
appena uscito di dietro la tela cerata -
eh sì, invariabilità della vita, la madre
mi parlò come Lìmardi Maria, preparandomi la limonata
sacra all'ospite; la madre bianca ma ancor giovane di carne;
invecchiata come invecchiano le povere, eppur ragazza;
la sua gentilezza con quella del suo compagno,
fraterno al figlio che solo per sua volontà
era ora come un messo della Città -
Ah, sovversivi, ricerco l'amore e trovo voi.
Ricerco la perdizione e trovo la sete di giustizia.
Brasile, mia terra,
terra dei miei veri amici,
che non si occupano di nulla
oppure diventano sovversivi e come santi vengono accecati.
Nel cerchio più basso della Gerarchia di una città
immagine del mondo che da vecchio si fa nuovo,
colloco i vecchi, i vecchi borghesi
ché un vecchio popolano di città resta ragazzo
non ha da difendere niente -
va vestito in canottiera e calzonacci come Joaquim il figlio.
I vecchi, la mia categoria,
che vogliano o non vogliano -
Non si può sfuggire al destino di possedere il Potere,
esso si mette da solo
lentamente e fatalmente in mano ai vecchi,
anche se essi hanno le mani bucate
e sorridono umilmente come martiri satiri -
Accuso i vecchi di avere comunque vissuto,
accuso i vecchi di avere accettato la vita
(e non potevano non accettarla, ma non ci sono
vittime innocenti)
la vita accumulandosi ha dato ciò che essa voleva -
accuso i vecchi di avere fatto la volontà della vita.
Torniamo alla Favela
dove non si pensa nulla
o si vuole diventare messi della Città
là dove i vecchi sono filo-americani -
Tra i giovani che giocano biechi al pallone
di fronte a cucuzzoli fatati sul freddo Oceano,
chi vuole qualcosa e lo sa, è stato scelto a sorte -
inesperti di imperialismo classico
di ogni delicatezza verso il vecchio Impero da sfruttare
gli Americani dividono tra loro i fratelli superstiziosi
sempre scaldati dal loro sesso come banditi da un fuoco di sterpi -
È così per puro caso che un brasiliano è fascista e un altro sovversivo;
colui che cava gli occhi
può essere scambiato con colui cui gli occhi sono cavati.
Joaquim non avrebbe potuto mai essere distinto da un sicario.
Perché dunque non amarlo se lo fosse stato?
Anche il sicario è al vertice della Gerarchia,
coi suoi semplici lineamenti appena sbozzati
col suo semplice occhio
senz'altra luce che quella della carne
Così in cima alla Gerarchia,
trovo l'ambiguità, il nodo inestricabile.
O Brasile, mia disgraziata patria,
votata senza scelta alla felicità,
(di tutto son padroni il denaro e la carne,
mentre tu sei così poetico)
dentro ogni tuo abitante mio concittadino,
c'è un angelo che non sa nulla,
sempre chino sul suo sesso,
e si muove, vecchio o giovane,
a prendere le armi e lottare,
indifferentemente,
per il fascismo o la libertà -
Oh, Brasile, mia terra natale, dove
le vecchie lotte - bene o male già vinte -
per noi vecchi riacquistano significato -
rispondendo alla grazia di delinquenti o soldati
alla grazia brutale
Pier Paolo Pasolini, 1970 (in Trasumanar e organizzar, 1971)
Rainin' In Paradize
Welcome to paradise
Welcome to paradise
Today it's raining
Today it's raining
Today it's raining
Today it's raining (Welcome to paradise)
Today it's raining (Welcome to paradise)
Today it's raining (Welcome to paradise)
Today it's raining (Welcome to paradise)
Today it's raining
In Zaire
Was no good place to be
Free world go crazy
It's an atrocity
In Congo
Still no good place to be
They killed Mibali
It's a calamity
Go Maasai go Maasai be mellow
Go Maasai go Maasai be sharp
Go Maasai go Maasai be mellow
Go Maasai go Maasai be sharp
In Monrovia
This no good place to be
Weapon go crazy
It's an atrocity
In Palestina
Too much hypocrisy
This world go crazy
It's no fatality
Go Maasai go Maasai be mellow
Go Maasai go Maasai be sharp
Go Maasai go Maasai be mellow
Go Maasai go Maasai be sharp
Today it's raining
Today it's raining
Today it's raining
Today it's raining (Rainin in paradise)
Today it's raining (Welcome to Paradise)
Today it's raining (Welcome to Paradise)
Today it's raining (Welcome to Paradise)
Today it's raining
In Baghdad
It's no democracy
That just because
It's a US Country
In Fallujah
Too much calamity
This world go crazy
It's no fatality
Go Maasai go Maasai be mellow
Go Maasai go Maasai be sharp
Go Maasai go Maasai be mellow
Go Maasai go Maasai be sharp
Today it's raining
Today it's raining
Today it's raining
Today it's raining
In Jerusalem
In Monrovia
Guinea-Bissau
Today it's raining (Welcome to paradise)
In Jerusalem
In Monrovia
Guinea-Bissau (Welcome to paradise)
Today it's raining
In Jerusalem
In Monrovia
Guinea-Bissau
Today it's raining (Welcome to paradise)
Today it's raining (Come to the fairy lies)
Today it's raining (Welcome to paradise)
Today it's raining (Welcome to paradise)
Manu Chao, Rainin' In Paradize, 2007
lunedì
La vendita di armi vola. Grazie ad Obama
La statunitense National Rifle Association: 4 milioni di membri.
Tutti mooolto preoccupati per l'elezione di Barack Obama a presidente.
Armelle Vincent, Etats-Unis : grâce à Obama, les ventes d'armes s'envolent (da Rue89.com)
Berni Wrightson — Frankenstein Portfolios
Dai comics alla letteratura.
Il dramma della creatura di Frankenstein attraverso l'incredibile tratto di Berni Wrightson.
Le immagini da Golden Age Comic Book Stories
Il sito ufficiale di Berni Wrightson
La maledizione del guirre
Tanti anni, così lontano da casa, e ancora mi torna alla mente. Vedo l’ombra nella sabbia e mi risuona nelle orecchie il toc-toc della sua zampa di legno sulle pietre del cortile. La figurina dell’aquila, il marchio che portava Felipe: due ali sfrangiate che si divaricavano sopra la sua guancia sfidando la brezza.
Usciva dalla casa e tutti correvamo via fuggendo dalla furia della sua stampella. Gridava. All’attacco seguiva il dolore, e allora ululava incatenando nomi e lamenti, graffiandosi la faccia con violenza nel tentativo di estirpare il segno della sua disgrazia: la maledizione del guirre.
Si compì il suo destino. Precipitò giù nel pozzo dell’acqua. Si spezzò la gamba, e la ragione, invischiata nella melma che gli vetrificò gli occhi, rimase sul fondo. Lacrime e muco, schiume di rabbia contro tutto fino a farlo rintanare nel suo covo, a sbavare bestemmie sul cuscino. La paura lo incalzava, e come uno spaventapasseri animato correva qua e là fuggendo dalle ombre, e poi il suo pianto lo nascondeva dentro quelle. Avanzava a sbandate, guardandosi le spalle, sempre allerta, evitando le imboscate del nemico rannicchiato nell’oscurità.
Con la sua morte non va via l’orrore.
È tornato col becco della pazzia dipinto sul volto, per planare sopra l’universo delle mie creature alate.
María Gutiérrez, La maldición del guirre
Guirre è il nome berbero per il piccolo avvoltoio (Neophron percnopterus majorensis — it. Capovaccaio) che popola le Isole Canarie — terra della poetessa e scrittrice María Guitiérrez — e le loro leggende
(Racconto tradotto dalla Máquina de coser palabras)
venerdì
Vergogna
«Ver-go-gna! Ver-go-gna! Ver-go-gna! Ver-go-gna! Ver-go-gna! Ver-go-gna! Ver-go-gna! Ver-go-gna! Ver-go-gna! Ver-go-gna! Ver-go-gna! Ver-go-gna! Ver-go-gna! Ver-go-gna! Ver-go-gna! Ver-go-gna! Ver-go-gna! Ver-go-gna! Ver-go-gna! Ver-go-gna! Ver-go-gna! Ver-go-gna! Ver-go-gna! Ver-go-gna! Ver-go-gna! Ver-go-gna! Ver-go-gna! Ver-go-gna! Ver-go-gna! Ver-go-gna! Ver-go-gna! Ver-go-gna! Ver-go-gna! Ver-go-gna! Ver-go-gna! Ver-go-gna! Ver-go-gna! Ver-go-gna! Ver-go-gna! Ver-go-gna! Ver-go-gna! Ver-go-gna! Ver-go-gna! Ver-go-gna! Ver-go-gna! Ver-go-gna! Ver-go-gna! Ver-go-gna! Ver-go-gna! Ver-go-gna! Ver-go-gna! Ver-go-gna! Ver-go-gna! Ver-go-gna! Ver-go-gna! Ver-go-gna! Ver-go-gna! Ver-go-gna! Ver-go-gna! Ver-go-gna! Ver-go-gna! Ver-go-gna! Ver-go-gna! Ver-go-gna! Ver-go-gna! Ver-go-gna! Ver-go-gna! Ver-go-gna! Ver-go-gna! Ver-go-gna! Ver-go-gna! Ver-go-gna! Ver-go-gna! Ver-go-gna! Ver-go-gna! Ver-go-gna! Ver-go-gna! Ver-go-gna! Ver-go-gna! Ver-go-gna! Ver-go-gna! Ver-go-gna! Ver-go-gna! 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G8, sentenza choc sul massacro della DiazVertici polizia assolti. L'aula: "Vergogna" (da Repubblica.it di Genova)
giovedì
Autunno: un waka e due haiku
Villaggio sul monte.
Sveglio all'alba, ascolto
— voce di tormenta —
le foglie degli alberi
in questo mese senza dèi.
Noin (988 - 1050)
Dèi e dèi
assenti. Lavo panni:
anche oggi piove.
Kobayashi Issa (1763 –1828)
In questa assenza
ogni cosa è rovina; gli dèi
foglie cadute
Matsuo Bashō (1644 – 1694)
Tre stupori sul «mese senza dèi» tradotti da Margen del yodo, di Aurelio Asiain, vera e propria enciclopedia dell'arte e della cultura giapponese (e non solo) — con le meravigliose fotografie dello studioso
La nostra marmellata (6)
«(...) le spese correnti di Palazzo Madama, nel 2008, sono salite di quasi 13 milioni rispetto al 2007 per sfondare il tetto di 570 milioni e mezzo di euro. Un'enormità: un milione e 772.000 euro a senatore. (...)
Colpa di certe spese non facilmente comprensibili per un cittadino comune: 19.080 euro in sei mesi per noleggiare piante ornamentali, 8.200 euro per "calze e collant di servizio" (in soli tre mesi), 56.000 per "camicie di servizio" (sei mesi), 16.200 euro per "fornitura vestiario di servizio per motociclisti". Ma soprattutto dei nuovi vitalizi ai 57 membri non rieletti e dei 7.251.000 euro scuciti per pagare gli "assegni di solidarietà" ai senatori rimasti senza seggio. Come Clemente Mastella. Il cui "assegno di reinserimento nella vita sociale" (manco fosse un carcerato dimesso dalle patrie galere) scandalizzò anche Famiglia Cristiana che gli chiese di rinunciare a quei 307.328 euro e di darli in beneficenza. Sì, ciao: "La somma spetta per legge a tutti gli ex parlamentari". Fine.
Grazie alle vecchie regole, il "reinserimento nella vita sociale" di Armando Cossutta è costato 345.600 euro, quello di Alfredo Biondi 278.516, quello di Francesco D'Onofrio 240.100. Un pedaggio pagato, ovviamente, anche dalla Camera. Dove Angelo Sanza, per fare un esempio, ha trovato motivo di consolazione per l'addio a Montecitorio in un accredito bancario di 337.068 euro. Più una pensione mensile di 9.947 euro per dieci legislature. Pari a mezzo secolo di attività parlamentare. Teorici, si capisce: grazie alle continue elezioni anticipate, in realtà, di anni "onorevoli" ne aveva fatti quattordici di meno...»
Sergio Rizzo, Gian Antonio Stella, I costi della politica: più 100 milioni, tratto da La Casta, nuova edizione aggiornata («Corriere della Sera» del 12 novembre 2008 — il testo completo sul Corriere.it)
La nostra marmellata su Narcolessia delle giraffe
Memo (Mehmet) Akten
Un assaggio delle affascinanti sperimentazioni audiovisive e delle performances dell'artista londinese Memo Akten (vai al sito)
mercoledì
De religione
Anabolizzanti
La religione è l'oppio del popolo, d'accordo. Stando così le cose, papi, cardinali, vescovi, sacerdoti, monaci. Che verrebbero ad essere — narcotrafficanti?...
Giostra
Un giorno dopo l'altro può portarci direttamente al Giorno del Giudizio. E poi, a ricominciare.
Saturnino Rodríguez Riverón, Anabolizantes e Noria
(Due microtesti del poeta e narratore cubano Saturnino Rodríguez Riverón tratti da Manuscritos en papel de cigarro, Editora Abril, La Habana 2001 — tradotti dalla Máquina de coser palabras)
Niki
«Questa testimonianza di una madre che ha perso suo figlio è forse la più agghiacciante che il blog abbia mai pubblicato.
Ascolto le sue parole e non ci credo.
Un ragazzo incensurato, arrestato, tradotto in un carcere di massima sicurezza con l’impossibilità di parlargli, di contattarlo. Tre giorni dopo muore. Si è suicidato, secondo le fonti ufficiali.
Non penso che possa succedere in uno Stato che si dice democratico. Vorrei ascoltare il pm, chi ha convalidato l’arresto, il direttore del carcere, l’avvocato. Voglio ancora credere in un tragico errore...»
Da Beppegrillo.it: Niki non c'è più (leggi tutto)
martedì
L'eterno pellegrinaggio del piccolo coccodrillo di plastica
Un piccolo coccodrillo di plastica cammina sulla superficie bianca del foglio, ad ogni passo lascia una parola e alla fine della riga si gira all’indietro per leggere: Un piccolo coccodrillo di plastica cammina sulla superficie bianca del foglio, ad ogni passo lascia una parola e alla fine della riga si gira all’indietro per leggere: Un piccolo coccodrillo di plastica cammina sulla superficie bianca del foglio, ad ogni passo lascia una parola e alla fine della riga si gira all’indietro per leggere: Un piccolo coccodrillo di plastica…
Ricardo Bernal, El eterno peregrinaje del diminuto cocodrilo de plástico
Un "gioco letterario" dal messicano Ricardo Bernal (tradotto dal blog Químicamente impuro)
Ricardo Bernal su Narcolessia delle giraffe
lunedì
Ghost Towns
(Kolmanskop, Namibia)
(Prypiat, Ucraina)
Da Kolmanskop, sepolta nelle sabbie della Namibia, all'allucinante Prypiat post-Chernobyl — fino all'isola proibita di Gunkanjima...
A conclusione di questo miniciclo spettrale, le 10 più incredibili città-fantasma del mondo (da Oddee.com)
Un osso di morto
Lascio a chi mi legge l’apprezzamento del fatto inesplicabile che sto per raccontare.
Nel 1855, domiciliatomi a Pavia, m’era dato allo studio del disegno in una scuola privata di quella città; e dopo alcuni mesi di soggiorno aveva stretto relazione con certo Federico M. che era professore di patologia e di clinica per l’insegnamento universitario, e che morì di apoplessia fulminante pochi mesi dopo che lo aveva conosciuto. Era uomo amantissimo delle scienze, e della sua in particolare – aveva virtù e doti di mente non comuni – senonché, come tutti gli anatomisti ed i clinici in genere, era scettico profondamente e inguaribilmente – lo era per convinzione, né io potei mai indurlo alle mie credenze, per quanto mi vi adoprassi nelle discussioni appassionate e calorose che avevamo ogni giorno a questo riguardo. Nondimeno – e piacemi rendere questa giustizia alla sua memoria – egli si era mostrato sempre tollerante di quelle convinzioni che non erano le sue; ed io e quanti il conobbero abbiamo serbato la più cara rimembranza di lui. Pochi giorni prima della sua morte egli mi aveva consigliato ad assistere alle sue lezioni di anatomia, adducendo che ne avrei tratte non poche cognizioni giovevoli alla mia arte del disegno: acconsentii benché repugnante; e spinto dalla vanità di parergli meno pauroso che nol fossi, lo richiesi di alcune ossa umane che egli mi diede e che io collocai sul caminetto della mia stanza. Colla morte di lui io aveva cessato di frequentare il corso anatomico, e più tardi aveva anche desistito dallo studio del disegno. Nondimeno aveva conservato ancora per molti anni quelle ossa, ché l’abitudine di vederle me le aveva rese quasi indifferenti, e non sono più di pochi mesi che, colto da subite paure, mi risolsi a seppellirle, non trattenendo presso di me che una semplice rotella di ginocchio. Questo ossicino sferico e liscio che, per la sua forma e la sua piccolezza io aveva destinato, fino dal primo istante che l’ebbi, a compiere l’ufficio d’un premi-carte, come quello che non mi richiamava alcuna idea spaventosa, si trovava già collocato da undici anni sul mio tavolino, allorché ne fui privato nel modo inesplicabile che sto per raccontare.
Aveva conosciuto a Milano nella scorsa primavera un magnetizzatore assai noto tra gli amatori di spiritismo, e aveva fatto istanze per essere ammesso ad una delle sue sedute spiritiche. Ricevetti poco dopo invito di recarmivi, e vi andai agitato da prevenzioni sì tristi, che più volte lungo la via era stato quasi in procinto di rinunciarvi. L’insistenza del mio amor proprio mi vi aveva spinto mio malgrado. Non starò a discorrere qui delle invocazioni sorprendenti a cui assistetti: basterà il dire che io fui sì meravigliato delle risposte che ascoltammo da alcuni spiriti, e la mia mente fu sì colpita da quei prodigi, che superato ogni timore, concepii il desiderio di chiamarne uno di mia conoscenza, e rivolgergli io stesso alcune domande che aveva già meditate e discusse nella mia mente. Manifestata questa volontà, venni introdotto in un gabinetto appartato, ove fui lasciato solo; e poiché l’impazienza e il desiderio d’invocare molti spiriti a un tempo mi rendevano titubante sulla scelta, ed era mio disegno di interrogare lo spirito invocato sul destino umano, e sulla spiritualità della nostra natura, mi venne in memoria il dottore Federico M. col quale, vivente, aveva avuto delle vive discussioni su questo argomento, e deliberai di chiamarlo. Fatta questa scelta, mi sedetti ad un tavolino, disposi innanzi a me un foglietto di carta, intinsi la penna nel calamaio, mi posi in atteggiamento di scrivere, e concentratomi per quanto era possibile in quel pensiero, e raccolta tutta la mia potenza di volizione, e direttala a quello scopo, attesi che lo spirito del dottore venisse.
Non attesi lungamente. Dopo alcuni minuti d’indugio mi accorsi per sensazioni nuove e inesplicabili che io non era più solo nella stanza, sentii per così dire la sua presenza; e prima che avessi saputo risolvermi a formulare una domanda, la mia mano agitata e convulsa, mossa come da una forza estranea alla mia volontà, scrisse, me inconsapevole, queste parole:
“Sono a voi. Mi avete chiamato in un momento in cui delle invocazioni più esigenti mi impedivano di venire, né potrò trattenermi ora qui, né rispondere alle interrogazioni che avete deliberato di farmi. Nondimeno vi ho obbedito per compiacervi, e perché aveva bisogno io stesso di voi; ed era gran tempo che cercava il mezzo di mettermi in comunicazione col vostro spirito. Durante la mia vita mortale vi ho date alcune ossa che aveva sottratte al gabinetto anatomico di Pavia, e tra le quali vi era una rotella di ginocchio che ha appartenuto al corpo di un ex inserviente dell’Università, che si chiamava Pietro Mariani, e di cui io aveva sezionato arbitrariamente il cadavere. Sono ora undici anni che egli mette alla tortura il mio spirito per riavere, quell’ossicino inconcludente, né cessa di rimproverarmi amaramente quell’atto, di minacciarmi, e di insistere per la restituzione della sua rotella. Ve ne scongiuro per la memoria forse non ingrata che avrete serbato di me, se voi la conservate tuttora, restituitegliela, scioglietemi da questo debito tormentoso. Io farò venire a voi in questo momento lo spirito del Mariani. Rispondete.”
Atterrito da quella rivelazione, io risposi che conservava di fatto quella sciagurata rotella, e che era felice di poterla restituire al suo proprietario legittimo, che, non v’essendo altra via, mandasse da me il Mariani. Ciò detto, o dirò meglio, pensato, sentii la mia persona come alleggerita, il mio braccio più libero, la mia mano non più ingranchita come dianzi, e compresi, in una parola, che lo spirito del dottore era partito.
Stetti allora un altro istante ad attendere – la mia mente era in uno stato di esaltazione impossibile a definirsi.
In capo ad alcuni minuti, riprovai gli stessi fenomeni di prima, benché meno intensi; e la mia mano trascinata dalla volontà dello spirito, scrisse queste altre parole:
“Lo spirito di Pietro Mariani, ex inserviente dell’Università di Pavia, è innanzi a voi, e reclama la rotella del suo ginocchio sinistro che ritenete indebitamente da undici anni. Rispondete.”
Questo linguaggio era più conciso e più energico di quello del dottore. Io replicai allo spirito: « Io sono dispostissimo a restituire a Pietro Mariani la rotella del suo ginocchio sinistro, e lo prego anzi a perdonarmene la detenzione illegale; desidero però di conoscere come potrò effettuare la restituzione che mi è domandata ».
Allora la mia mano tornò a scrivere:
“Pietro Mariani, ex inserviente dell’Università di Pavia, verrà a riprendere egli stesso la sua rotella.”
« Quando? » chiesi io atterrito.
E la mano vergò istantaneamente una sola parola: “Stanotte”.
Annichilito da quella notizia, coperto di un sudore cadaverico, io mi affrettai ad esclamare, mutando tono di voce ad un tratto: « Per carità... vi scongiuro... non vi disturbate... manderò io stesso... vi saranno altri mezzi meno incomodi... ». Ma non aveva finito la frase che mi accorsi, per le sensazioni già provate dapprima, che lo spirito di Mariani si era allontanato, e che non v’era più mezzo ad impedire la sua venuta.
È impossibile che io possa rendere qui colle parole l’angoscia delle sensazioni che provai in quel momento. Io era in preda ad un panico spaventoso. Uscii da quella casa mentre gli orologi della città suonavano la mezzanotte: le vie erano deserte, i lumi delle finestre spenti, le fiamme nei fanali offuscate da un nebbione fitto e pesante – tutto mi pareva più tetro del solito. Camminai per un pezzo senza sapere dove dirigermi: un istinto più potente della mia volontà mi allontanava dalla mia abitazione. Ove attingere il coraggio di andarvi? Io avrei dovuto ricevervi in quella notte la visita di uno spettro – era un’idea da morirne, era una prevenzione troppo terribile.
Volle allora il caso che aggirandomi, non so più per qual via, mi trovassi di fronte a una bettola, su cui vidi scritto a caratteri intagliati in un’impannata, e illuminati da una fiamma interna: “Vini nazionali” e io dissi senz’altro a me stesso: “Entriamovi, è meglio così, e non è un cattivo rimedio; cercherò nel vino quell’ardimento che non ho più il potere di chiedere alla mia ragione”. E cacciatomi in un angolo d’una stanzaccia sotterranea domandai alcune bottiglie di vino che bevetti con avidità, benché repugnante per abitudine all’abuso di quel liquore. Ottenni l’effetto che aveva desiderato. Ad ogni bicchiere bevuto il mio timore svaniva sensibilmente, i miei pensieri si dilucidavano, le mie idee parevano riordinarsi, quantunque con un disordine nuovo; e a poco a poco riconquistai talmente il mio coraggio che risi meco stesso del mio terrore, e mi alzai, e mi avviai risoluto verso casa.
Giunto in stanza, un po’ barcollante pel troppo vino bevuto, accesi il lume, mi spogliai per metà, mi cacciai a precipizio nel letto, chiusi un occhio e poi un altro, e tentai di addormentarmi. Ma era indarno. Mi sentiva assopito, irrigidito, catalettico, impotente a muovermi; le coperte mi pesavano addosso e mi avviluppavano e mi investivano come fossero di metallo fuso: e durante quell’assopimento incominciai ad avvedermi che dei fenomeni singolari si compievano intorno a me.
Dal lucignolo della candela che mi pareva avere spento, che era d’altronde una stearica pura, si sollevavano in giro delle spire di fumo sì fitte e sì nere, che raccogliendosi sotto il soffitto lo nascondevano, e assumevano apparenza di una cappa pesante di piombo: l’atmosfera della stanza, divenuta ad un tratto soffocante, era impregnata di un odore simile a quello che esala dalla carne viva abbrustolita, le mie orecchie erano assordate da un brontolio incessante di cui non sapeva indovinare le cause, e la rotella che vedeva lì, tra le mie carte, pareva muoversi e girare sulla superficie del tavolo, come in preda a convulsioni strane e violente.
Durai non so quanto tempo in quello stato: io non poteva distogliere la mia attenzione da quella rotella. I miei sensi, le mie facoltà, le mie idee, tutto era concentrato in quella vista, tutto mi attraeva a lei; io voleva sollevarmi, discendere dal letto, uscire, ma non mi era possibile; e la mia desolazione era giunta a tal grado che quasi non ebbi a provare alcuno spavento, allorché dissipatosi a un tratto il fumo emanato dal lucignolo della candela, vidi sollevarsi la tenda dell’uscio e comparire il fantasma aspettato.
Io non batteva palpebra. Avanzatosi fino alla metà della stanza, s’inchinò cortesemente e mi disse: « Io sono Pietro Mariani, e vengo a riprendere, come vi ho promesso, la mia rotella ».
E poiché il terrore mi rendeva esitante a rispondergli, egli continuò con dolcezza: « Perdonerete se ho dovuto disturbarvi nel colmo della notte... in quest’ora... capisco che la è un’ora incomoda... ma... ».
« Oh! è nulla, è nulla » io interruppi rassicurato da tanta cortesia « io vi debbo anzi ringraziare della vostra visita... io mi terrò sempre onorato di ricevervi nella mia casa... »
« Ve ne son grato » disse lo spettro « ma desidero ad ogni modo giustificarmi dell’insistenza con cui ho reclamato la mia rotella, sia presso di voi, sia presso l’egregio dottore dal quale l’avete ricevuta: osservate. »
E così dicendo sollevò un lembo del lenzuolo bianco in cui era avviluppato, e mostrandomi lo stinco della gamba sinistra legato al femore, per mancanza della rotella, con un nastro nero passato due o tre volte nell’apertura della fibula, fece alcuni passi per la stanza onde farmi conoscere che l’assenza di quell’osso gl’impediva di camminare liberamente.
« Tolga il cielo » io dissi allora con accento d’uomo mortificato « che il degno ex inserviente dell’Università di Pavia abbia a rimanere zoppicante per mia causa: ecco la vostra rotella, là, sul tavolino, prendetela, e accomodatela come potete al vostro ginocchio. »
Lo spettro s’inchinò per la seconda volta in atto di ringraziamento, si slegò il nastro che gli congiungeva il femore allo stinco, lo posò sul tavolino, e presa la rotella, incominciò ad adattarla alla gamba.
« Che notizie ne recate dall’altro mondo? » io chiesi allora, vedendo che la conversazione languiva, durante quella sua occupazione.
Ma egli non rispose alla mia domanda, ed esclamò con aspetto attristato: « Questa rotella è alquanto deteriorata, non ne avete fatto un buon uso ».
« Non credo » io dissi « ma forse che le altre vostre ossa sono più solide? »
Egli tacque ancora, s’inchinò la terza volta per salutarmi; e quando fu sulla soglia dell’uscio, rispose chiudendone l’imposta dietro di sé: « Sentite se le altre mie ossa non sono più solide ».
E pronunciando queste parole percosse il pavimento col piede con tanta violenza che le pareti ne tremarono tutte; e a quel rumore mi scossi e... mi svegliai.
E appena desto, intesi che era la portinaia che picchiava all’uscio e diceva: « Son io, si alzi, mi venga ad aprire ».
« Mio Dio! » esclamai allora fregandomi gli occhi col rovescio della mano « era dunque un sogno, nient’altro che un sogno! che spavento! sia lodato il cielo... Ma quale insensatezza! Credere allo spiritismo... ai fantasmi... ». E infilzati in fretta i calzoni, corsi ad aprire l’uscio; e poiché il freddo mi consigliava a ricacciarmi sotto le coltri, mi avvicinai al tavolino per posarvi la lettera sotto il premi-carte...
Ma quale fu il mio terrore quando vi vidi sparita la rotella, e al suo posto trovai il nastro nero che vi aveva lasciato Pietro Mariani!
Igino Ugo Tarchetti (1839-1869), Un osso di morto, 1867
L’ironico, contestatario, bohémien Igino Tarchetti — più noto per il romanzo Fosca (uscito postumo, nel 1869) —, è forse l’esponente più autentico della corrente letteraria che va sotto il nome di Scapigliatura (questo racconto è tratto dalle Opere complete a cura di E. Ghidetti, Cappelli 1967)
Fantasmi americani
Le inavvertibili presenze che infestano il vicinato di Mount Washington, Los Angeles (Kevin Kidney su Dinosaurs and Robots)
venerdì
Tempus fugit
è solo questione di tempo.
Jorge Wagensberg
Percezione
Lo angoscia guardare l’orologio. L’orologio è cosciente di questa sua angoscia e si ferma. Il tempo si trattiene. Ma non esistono altri paradisi se non i paradisi perduti, e così l’orologio, compassionevole, torna a segnare la fuga delle ore.
Deleterio
Lui sa che il tempo non è una linea. Lui sa che il tempo si ritorce, si acciambella, gira, si curva su se stesso. Allora è quando cade sopra l’aculeo distale dello scorpione, sul suo veleno.
Il bambino con la conchiglia
Prima il tempo non c’era. Allora il bambino poteva tirar fuori l’acqua del mare con una conchiglia, e svuotarlo. Soltanto la sua morte, repentina, trasforma l’opera in un esercizio sterile, e affretta castigo e assoluzione.
Foglie d’acanto
Non poteva toccare le foglie della memoria perché era un dolore vivo, tagliente. Che dolore?, domandò. Quello del tempo, disse. Il tempo del dolore della memoria che se ne sta immobile sotto le foglie d’acanto.
Rovesciamento
Le lancette degli orologi cominciarono a girare all’indietro. Il tempo smise di passare, non ci fu più futuro e le cose presero a muoversi verso il passato. Smise di esistere il corso del mondo. Tutto iniziò a indietreggiare e, come in un brutto sogno, restammo a galleggiare nel liquido amniotico dell’universo, dentro un tempo rovesciabile.
Clessidra
Il corpo si sviluppa e va in rovina con il tempo della clessidra ad acqua. Quindi la afferra con le mani e la scaglia a terra identico a colui che spezza la colonna vertebrale al messaggero. Appare il tempo come una successione acquosa di perplessità che scorre in modo iniquo.
Tempo trattenuto
Le foto, sì. Le foto conservano volti e oggetti trattenuti. Istanti di luce congelati… la pelle così liscia del viso della nonna. Ma la carta non ha potuto sopportare il peso inesorabile dei giorni, e via via ha acquisito tutte le gradazioni del pallore, fino al seppia. Il tempo continua, cieco, il suo lavoro di devastazione.
Quello che gioca con il tempo
Lui è l’unico che gioca davvero con il tempo. Lo accorcia, lo interrompe, lo allunga, lo fa impazzire, lo trasforma in un oggetto vibratile. Lui è l’unico che crea tempi simultanei, paralleli, tempi che subito si possono incrociare, annodare, distruggere. Spirali di tempo. Lui è l’unico che mescola i tempi, che assegna loro ritmi vertiginosi, che li blocca. Lui è quello che soppesa la loro profondità, conosce il grado di coscienza degli esseri lanciati sulla lama delle ore. Lui è quello che, in un attimo, li lascia cader giù e poi gioca con le generazioni, le genealogie e le saghe. Lui è quello che cambia le ore in giorni e notti e anni e secoli. Guardalo bene! Se ne sta seduto impunemente al tavolino, scrive, la lampadina accesa. Lui è il narratore onnisciente, quello che deve morire adesso perché tu ed io lo stiamo per uccidere. Questa è l’unica cosa che non sa.
Juan Yanes, Tempus fugit
(Un'altra meraviglia tradotta dal blog Máquina de coser palabras)
Juan Yanes su Narcolessia delle giraffe
Teardrop
Love, love is a verb
Love is a doing word
Fearless on my breath
Gentle impulsion
Shakes me makes me lighter
Fearless on my breath
Teardrop on the fire
Fearless on my breath
Nine night of matter
Black flowers blossom
Fearless on my breath
Black flowers blossom
Fearless on my breath
Teardrop on the fire
Fearless on my breath
Water is my eye
Most faithful mirror
Fearless on my breath
Teardrop on the fire of a confession
Fearless on my breath
Most faithful mirror
Fearless on my breath
Teardrop on the fire
Fearless on my breath
Stumbling a little
Stumbling a little
Massive Attack, Teardrop, 1998
Gioire con prudenza
«Obama è un nero, d’accordo, ma coi neri d’America, col loro colore, stile di vita, linguaggio, e condizione sociale ha ben poco in comune. Innegabile il primato di un nero alla Casa Bianca, ma guardiamo oltre, per favore. E la prima cosa che si osserva è che un’attenta lettura del programma di Barack Obama lascia una sorta di vuoto mentale e nessuna idea precisa. Dalla Sanità alla politica estera, dall’economia alla scuola, veniamo trascinati attraverso una serie di proclami talmente generici da produrre un unico possibile interrogativo: ma che significano in pratica? Soprattutto (...), dove sono le risposte del senatore Obama ai temi più cruciali della politica americana, ovvero ai temi più vergognosi della sua politica estera? E cioè: lo strapotere delle lobby economiche e di quella ebraica nelle stanze che contano a Washington, che il suo programma solo vagamente tratta; la politica scellerata oltre che immorale sul Medioriente, all’insegna di un incredibile sistema di due pesi e due misure nei rapporti con Israele/Emirati/ArabiaSaudita e a sfavore di chiunque altro; il sostegno americano alla repressione in Colombia, che nel nome della lotta alla droga sta assassinando la società civile attiva di quel Paese, e la rapina storica che le multinazionali statunitensi pretenderebbero di perpetrare ancora su milioni di campesinos in miseria, per giungere alla continua interferenza americana negli affari interni di tutta l’America Latina; la vergogna dell’embargo economico contro Cuba; il dramma dell’abbandono sanitario di 44 milioni di cittadini statunitensi che invocano (assieme a milioni di altri) un sistema sanitario nazionale gratuito basato sulla tassazione pubblica, e non mezze misure dove al centro stanno comunque le solite compagnie assicurative; il problema degli accordi di libero scambio commerciale che stanno uccidendo masse di posti di lavoro negli USA mentre creano posti di lavoro da schiavi nei Paesi aderenti (sempre Terzo Mondo); la fine del balletto vergognoso del rispetto selettivo delle regole internazionali che Washington adotta come politica standard da 50 anni, e cito le regole del WTO, del NPT, della Biological Weapons Convention ecc., e il rispetto delle sentenze delle corti internazionali come la Corte Internazionale di Giustizia, o il Tribunale Criminale Internazionale, o ancora il rispetto delle Convenzioni di Ginevra e dell’Habeas Corpus; il ritiro della presenza militare americana dall’Iraq intesa come ‘ritiro’, e non la farsa del ritiro di truppe spicciole che lasciano però sul terreno le più sofisticate basi militari americane al mondo; la Guerra al Terrorismo, come mezzo per la disseminazione di quelle basi in posti chiave per le risorse necessarie all’America; la fine delle leggi liberticide che l’amministrazione Bush ha passato con la scusa della Guerra al Terrorismo; la stagnazione degli stipendi medi americani da oltre 30 anni e la povertà a livelli scandalosi per il Paese più ricco del mondo, che non beneficeranno certo di qualche taglio alle tasse o donazione per un gran totale di 50 miliardi di dollari, mentre il budget per la difesa rimane di 700 miliardi di dollari l’anno; l’esplosione di una finanza speculativa fuori controllo che tiene oggi tutto il Pianeta sotto la spada di Damocle di 540 mila miliardi di dollari in prodotti derivati che fluttuano all’impazzata e senza controlli, una bomba atomica sotto ogni letto di ogni cittadino del mondo. E sono molti altri i temi pressanti su cui Obama ha detto da troppo poco a sostanzialmente nulla...»
Leggi tutto l'articolo di Paolo Barnard, Obama? Gioire con prudenza, molta
giovedì
Confessionale
Si incontravano nella stessa chiesa, sempre al calar della sera. Nel confessionale si passavano le informazioni della resistenza e lei, carica d’ansia, non riusciva a smettere di fumare. Correva il rischio che le spire di fumo li denunciassero, ma la sigaretta serviva anche per ridurre in cenere gli appunti, le note sui foglietti. La cosa peggiore, tuttavia, erano le penitenze. A ogni nuova missione lasciavano la chiesa dominati dalla paura.
Angela Schnoor, Confessionário
Uno dei fulminanti racconti brevi della brasiliana Angela Schnoor (tradotto dal blog Microargumentos)
L'altro blog di Angela Schnoor: Ideália
L'e-book Na barca de Caronte
Angela Schnoor su Narcolessia delle giraffe
Una canzone d'amore
Quando não tinha nada, eu quis
Quando tudo era ausência, esperei
Quando tive frio, tremi
Quando tive coragem, liguei...
Quando chegou carta, abri
Quando ouvi prince, dancei
Quando o olho brilhou, entendi
Quando criei asas, voei...
Quando me chamou, eu vim
Quando dei por mim, tava aqui
Quando lhe achei, me perdi
Quando vi você, me apaixonei...
Amarazáia zoê, záia, záia
A hin hingá do hanhan.....
Ohhh!
Amarazáia zoê, záia, záia
A hin hingá do hanhan.....
Quando não tinha nada, eu quis
Quando tudo era ausência, esperei
Quando tive frio, tremi
Quando tive coragem, liguei...
Quando chegou carta, abri
Quando ouvi Salif Keita, dancei
Quando o olho brilhou, entendi
Quando criei asas, voei...
Quando me chamou, eu vim
Quando dei por mim, tava aqui
Quando lhe achei, me perdi
Quando vi você, me apaixonei...
Amarazáia zoê, záia, záia
A hin hingá do hanhan...
Ohhhhh!
Amarazáia zoê, záia, záia
A hin hingá do hanhan.....
Quando me chamou, eu vim
Quando dei por mim, tava aqui
Quando lhe achei, me perdi
Quando vi você, me apaixonei...
Amarazáia zoê, záia, záia
A hin hingá do hanhan....
Ohhhhh!
Amarazáia zoê, záia, záia
A hin hingá do hanhan...
Ohhhhh!
Amarazáia zoê, záia, záia
A hin hingá do hanhan...
Ohhhhh!
Amarazáia zoê, záia, záia...
Chico César, À primeira vista, 1995
Profezie
«Verrà ucciso, ma sono problemi suoi. Se John [Kennedy] sapeva che sarebbe stato ucciso, anche un ragazzo nero dovrebbe saperlo.»
L'autore americano Gore Vidal a proposito di Barack Obama presidente (agosto 2008, «Corriere della Sera»)
War Slang
Che significa hell-jelly? E pope glass, che vuol dire?
Chi è un Jody?
E l'espressione «embrace the suck»?...
Mark Peters a proposito del War Slang (da Good.is)
mercoledì
martedì
Cento
Uno scrittore scrive un libro attorno ad uno scrittore che scrive due libri, attorno a due scrittori, uno dei quali scrive perché ama la verità ed un altro perché ad essa è indifferente. Da questi due scrittori vengono scritti, complessivamente, ventidue libri, nei quali si parla di ventidue scrittori, alcuni dei quali mentono ma non sanno di mentire, altri mentono sapendolo, altri cercano la verità sapendo di non poterla trovare, altri credono d'averla trovata, altri ancora credevano d'averla trovata, ma cominciano a dubitarne. I ventidue scrittori producono, complessivamente, trecentoquarantaquattro libri, nei quali si parla di cinquecentonove scrittori, giacché in più d'un libro uno scrittore sposa una scrittrice, ed hanno tra tre e sei figli, tutti scrittori, meno uno che lavora in banca e viene ucciso in una rapina, e poi si scopre che a casa stava scrivendo un bellissimo romanzo su uno scrittore che va in banca e viene ucciso in una rapina; il rapinatore, in realtà, è figlio dello scrittore protagonista di un altro romanzo, ed ha cambiato romanzo semplicemente perché gli era intollerabile continuare a vivere assieme a suo padre, autore di romanzi sulla decadenza della borghesia, e in particolare di una saga familiare, nella quale figura anche un giovane discendente di un romanziere autore di una saga sulla decadenza della borghesia, il quale discendente fugge di casa e diventa rapinatore, e in un assalto ad una banca uccide un banchiere, che era in realtà uno scrittore, non solo, ma anche suo fratello che aveva sbagliato romanzo, e cercava con raccomandazioni di farsi cambiare romanzo. I cinquecentonove scrittori scrivono ottomiladue romanzi, nei quali figurano dodicimila scrittori, in cifra tonda, i quali scrivono ottantaseimila volumi, nei quali si trova un unico scrittore, un balbuziente maniacale e depresso, che scrive un unico libro attorno ad uno scrittore che scrive un libro su uno scrittore, ma decide di non finirlo, e gli fissa un appuntamento, e lo uccide, determinando una reazione per cui muoiono i dodicimila, i cinquecentonove, i ventidue, i due, e l'unico autore iniziale, che ha così raggiunto l'obiettivo di scoprire, grazie ai suoi intermediari, l'unico scrittore necessario, la cui fine è la fine di tutti gli scrittori, compreso lui stesso, lo scrittore autore di tutti gli scrittori.
Giorgio Manganelli (1922-1990), tratto da Centuria, 1979
(Centuria, Rizzoli 1979)